Quello energetico non è un sistema così immobile nel tempo come si potrebbe pensare, viceversa è in continua evoluzione e nel corso di pochi decenni può cambiare in modo significativo attraverso varie fasi. Gli anni Sessanta e Settanta sono stati l’epoca dei grandi consumi di massa di petrolio grazie al boom dell’automobile. In precedenza, c’era stata l’affermazione del carbone a partire dalla Rivoluzione Industriale del 1870. Il gas inizia ad essere sfruttato invece dal 1950, ma prende piede soprattutto nel nuovo millennio. Il nucleare viene impiegato dal 1980, ma non decolla mai del tutto. I primi impatti delle rinnovabili si hanno nel 1970 con l’idroelettrico e sono in costante crescita nel nuovo millennio grazie soprattutto al fotovoltaico.
Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, queste sono oggi le percentuali nella produzione di elettricità al mondo per tipologia di fonte:
Queste invece le percentuali relative all’Italia:
India, Sudafrica e Giappone usano ancora molto il fossile, la Norvegia è al 100% sulle rinnovabili e la Francia è la prima al mondo sul nucleare che per ora decresce, ma potrà contare nei prossimi anni su nuovi impianti attualmente in costruzione in Russia Cina e India. In Italia sale l’eolico e il fotovoltaico ma si registra un leggero calo dell’idroelettrico.
Il dato incoraggiante è che nei nuovi impianti sparsi qua e là nel globo, 8 kilowatt su 10 sono alimentati da rinnovabili, dove è in grande ascesa il fotovoltaico la cui energia si può sempre più accumulare e gestire per i momenti di bisogno grazie alla tecnologia in evoluzione. In questo senso si hanno già forti investimenti che daranno risultati da qui al 2030. Fotovoltaico ed eolico sono inoltre complementari rispetto alla stagionalità e dunque si compensano. E’ quindi un buon bilanciamento perché è importante avere mercati interconnessi. Anche l’interconnessione geografica non è affatto secondaria nell’alternanza. Occorre inoltre educare la domanda come si faceva un tempo con gli elettrodomestici, che venivano usati nelle ore serali per avere bollette meno care. Sempre sul fronte delle rinnovabili abbiamo anche le forze mare motrici degli oceani e delle correnti che sono sempre più attenzionate, così come le biomasse che crescono. Insomma, le rinnovabili non ci lasceranno al buio come dicono molti.
Sul fronte dei costi si rileva che dal 2010 al 2022 il prezzo del fotovoltaico è crollato (fonte IRENA) e oggi costa un decimo di quello che costava nel 2010. L’eolico invece si è “solo” dimezzato in termini di prezzo. L’Agenzia internazionale dell’Energia sostiene che in generale le rinnovabili costano un terzo delle fonti tradizionali, al netto delle tasse sulle penali di emissioni. La considerazione vale per quasi tutti i paesi del globo. Inoltre, occorre tener conto anche dei costi energetici indiretti che non sempre sono visibili, come ad esempio le esternalità ambientali, sanitarie e sociali.
Nel 2021 le fonti rinnovabili hanno dato più lavoro nel mondo rispetto alle fonti fossili (fonte Agenzia Internazionale dell’Energia) e sono 65 milioni in totale nel mondo e nel 2030 potrebbero arrivare a 90 milioni. La riduzione dei posti di lavoro in settori tradizionali legati ai fossili sarebbe quindi più che compensata dall’aumento nei settori trainanti delle clean energy a cominciare proprio dalle rinnovabili elettriche, con il settore delle autovetture che farebbe da volano.
Secondo uno studio (fonte Italy for climate e Fondazione per lo sviluppo sostenibile) sulle filiere delle tecnologie rinnovabili condotto da Intesa San Paolo , l’Italia è il secondo produttore europeo di tecnologie rinnovabili dopo la Germania e il sesto esportatore al mondo di energie rinnovabili. Il saldo commerciale delle rinnovabili è ormai positivo in Italia dal 2013, cioè esportiamo più di quello che importiamo. Secondo il Ministero dell’Ambiente, da qui al 2030 il settore delle rinnovabili prevederebbe una crescita di 40.000 unità, che andrebbe a compensare con saldo positivo i settori in sofferenza come, ad esempio, la produzione di carbone e acciaio di Taranto e Sulcis Iglesiente. Insomma, la transizione conviene economicamente a dispetto di tutte le fake news che girano.
Quando si parla di crescita del fotovoltaico questa viene spesso identificata con la crescita degli impianti a terra che deturpano il paesaggio. In realtà dal 2012 l’85% (fonte GSE) dei nuovi impianti è realizzata a copertura degli edifici e per tale ragione non ha controindicazioni estetiche. Per arrivare alla potenza energetica necessaria all’Italia servirebbero 200.000 ettari di territorio, circa lo 0,7% del territorio nazionale, che non è poi molto se si considera che il territorio cementificato è pari al 7%.
Nonostante gli elementi positivi elencati in questo articolo, la transizione energetica sta subendo dei forti ritardi ovunque nel mondo rispetto agli obiettivi fissati qualche anno fa, e questo per colpa delle schizofrenie politiche che risentono del caos globale, del declino del diritto internazionale e del superamento della globalizzazione.
La roadmap del settore energetico fissata dall’Agenzia Internazionale dell’Energia individuava circa 400 milestone, tra cui l’aumento del tasso di elettrificazione dal 20% al 50% entro il 2050 con sistemi di generazione elettrica a zero emissioni nei paesi industrializzati già dal 2035, con il 90% di fonti rinnovabili. Di pari passo gli Accordi di Parigi del 2015 avevano previsto un taglio del 45% dei gas serra entro il 2030 e la neutralità climatica nel 2050. A questa velocità gli obiettivi del Green Deal Europeo verranno raggiunti solo tra 200 anni. In Italia non sembra andare diversamente perché le emissioni di gas serra, che erano calate dal 1990 fino al 2014, si sono ormai stabilizzate e la dipendenza energetica del Belpaese è passata dall’86% dell’anno 2000 al 75% del 2023 (fonte MISE) e fatica a calare come auspicato.
E mentre la transizione energetica rallenta, il cambiamento climatico accelera e nel Mediterraneo la temperatura dell’acqua è già aumentata di 3 gradi centigradi in circa 30 anni.
Aris Baraviera, Milano, 1 novembre 2024
Negli anni Settanta si ipotizzava l’arrivo più o meno imminente di una nuova era glaciale. Lo scrivevano giornali autorevoli a seguito di rilevazioni delle temperature del globo che mostravano un certo grado di raffreddamento, in particolare nelle misurazioni del quinquennio 1958-1963.
Oggi invece sappiamo, senza ombra di dubbio, che le temperature stanno salendo e che i carotaggi effettuati sugli archi alpini confermano che entro il 2100 spariranno tutti i ghiacciai esistenti sotto i 3600 metri di altitudine.
I carotaggi nei ghiacciai sono estremamente interessanti anche perché ci raccontano la qualità dell’aria imprigionata nel ghiaccio degli ultimi 800.000 anni. E questi ci dicono che non c’è mai stata una concentrazione di CO2 e di altri gas serra come è presente al giorno d’oggi.
L’lntergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente, mette nero su bianco che esiste un legame molto forte tra la quantità di gas serra prodotta dalle attività umane e il riscaldamento del pianeta e che affrontare i cambiamenti climatici vuol dire necessariamente ridurre la concentrazione di gas serra in atmosfera. Ma le nostre economie e i nostri stili di vita possono permettersi di azzerare le emissioni di gas serra? La risposta fa parte del dibattito che coinvolge innovazione tecnologica, ricerca scientifica e politiche economiche.
L’opinione pubblica e la stampa sembrano poco sensibili ai grandi cambiamenti in atto, come la possibile fine della Corrente del Golfo, dello scioglimento del permafrost e della Calotta glaciale groenlandese. Sono invece attratte dagli eventi estremi: si è parlato e scritto molto ad esempio dell’inverno scandinavo 2023/2024, uno dei più rigidi di sempre con temperature record nella Lapponia svedese. Così come si è raccontato delle zone che erano caratterizzate da temperature elevate a livelli record, come i 30 gradi di Valencia (il 26 gennaio 2024) e i 19,2 gradi registrati a nord della Scozia. Tutti sappiamo ormai che il mese di luglio 2023 è stato il mese più caldo di sempre, così come l’agosto 2023 è stato il più elevato come temperatura media marina.
Un effetto diretto del riscaldamento globale è infatti la maggiore frequenza e intensità dei fenomeni metereologici estremi, come le forti piogge e inondazioni, la siccità e le ondate di calore sempre più intense. Per la siccità le aree più a rischio sono gli Stati Uniti nella parte occidentale, il Sud America, l’Africa e il Mediterraneo.
Per capire quello che sta succedendo alla Terra è molto utile leggere i report dell’IPCC. L’IPCC prepara rapporti di valutazione completi sullo stato delle conoscenze scientifiche, tecniche e socioeconomiche relative al cambiamento climatico, sui suoi impatti e rischi futuri, e sulle opzioni per ridurre la velocità con cui si sta verificando il cambiamento climatico. Produce inoltre rapporti speciali su argomenti concordati dai governi membri, nonché rapporti metodologici che forniscono linee guida per la preparazione degli inventari dei gas serra.
Il primo rapporto IPCC è del 1990 (con un supplemento del 1992). Rileva la presenza media di 354 ppm (parti per milione) di CO2 in atmosfera e prevede un aumento della temperatura media di 1,2 gradi entro il 2010, previsione rivelatasi poi azzeccata.
Il secondo rapporto IPCC del 1995 rileva 361 ppm di CO2 in atmosfera e prevede l’aumento da 1 a 6 gradi entro il 2100. Il rapporto è stato importante perché ha dato impulso alla firma del Protocollo di Kyoto entrato in vigore diversi anni dopo.
Nel terzo rapporto IPCC del 2001 emerge la necessità anche dell’adattamento al clima che cambia. Le ppm di CO2 rilevate in atmosfera salgono a 371.
Il quarto rapporto IPCC è del 2007 e vince il Nobel per la Pace. La sintesi del rapporto presenta come "il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile, com'è evidente dalle osservazioni dell'aumento di temperatura media globale dell'aria e degli oceani" e sottolinea che "il maggior contributo all'aumento delle temperature globali media da metà del XX secolo sia molto probabilmente dovuto all'aumento nella concentrazione di gas serra di origine antropica".
Le ppm di CO2 presenti in atmosfera sono salite a 380.
Il quinto rapporto IPCC del 2014 viene completato in differenti step, iniziando dal rapporto del primo gruppo di lavoro in merito alle basi fisiche del cambiamento climatico sull'analisi di 9200 studi scientifici. Al momento della divulgazione del sommario per i legislatori Halldór Thorgeirsson, un ufficiale delle Nazioni Unite, evidenzia che, poiché delle grandi compagnie finanziano la negazione del cambiamento climatico, gli scienziati devono essere preparati per un aumento di pubblicità negativa nel breve termine.
Il rapporto, che rileva 400 ppm di CO2 in atmosfera, porta agli Accordi di Parigi ed evidenzia alcuni impatti ormai irreversibili, così come un aumento ormai costante dei gas serra. Il rapporto viene sottoscritto da tutti i Paesi Onu tranne l’Iran.
Il sesto rapporto IPCC del 2023 rileva 420 ppm di CO2 in atmosfera. Per la prima volta vengono presi in considerazione i fattori socioeconomici del cambiamento climatico. Viene sottolineato che c’è bisogno di un’azione urgente per il futuro di tutti e che non c’è più tempo da perdere, anche perché i gas serra presentano un’inerzia materiale e possono durare in atmosfera decine e decine di anni, in alcuni casi anche un secolo. Ormai l’obiettivo di contenere la temperatura entro alcuni limiti minimi è già perso, ma occorre invertire il trend appena possibile perché a questo ritmo di crescita dei gas serra potremmo arrivare ad un incremento della temperatura di tre gradi entro cinquant’anni.
Nonostante ci siano politici che continuino a bollare come ideologici gli allarmi lanciati dalla comunità scientifica internazionale sul cambiamento climatico, possiamo rilevare oggettivamente che non c’è mai stata tanta CO2 in atmosfera come quella presente ora e scritta nero sui bianco nei report delle Nazioni Unite.
Dati alla mano, verrebbe da dire che il pericolo maggiore si nasconda forse nei conflitti di interesse di natura economica, quindi nel negazionismo di stampo affaristico.
Aris Baraviera, Milano 15 settembre 2024.
Oggi siamo di fronte a fenomeni climatici sempre più estremi, devastanti e frequenti. Nessuno ha più dubbi sul fatto che siano in atto profondi mutamenti del clima del Pianeta e (quasi) tutti hanno capito che la responsabilità è dell’uomo. La comunità scientifica infatti già da diversi anni sta spiegando, anche grazie al contributo di modelli matematici sempre più accurati, che la responsabilità di questo cambiamento è dovuta perlopiù all’uso massiccio di combustibili fossili nelle attività umane.
Migliaia di giornalisti di tutto il mondo cercano ogni giorno di analizzare e spiegare fenomeni complessi rendendoli alla portata di tutti. Spesso lavorano con rigore scientifico, altre volte risultano invece un po’ superficiali o enfatici, In alcuni casi esprimono addirittura opinioni personali poco aderenti alla realtà dei fatti.
Le illustrazioni più utilizzate per spiegare su giornali on line e cartacei i fenomeni estremi -- soprattutto in estate-- sono le “isole di calore”, che evidenziano dei punti con picchi di alta temperatura rispetto alle aree circostanti. Vengono impiegate molte illustrazioni e tabelle che spiegano i livelli delle precipitazioni, la portata idrica dei fiumi, il livello dell’erosione dei ghiacciai e l’estensione delle aree desertificate.
Anche l’inquinamento di una data area (ad esempio la Pianura Padana) viene rappresentato spesso con le illustrazioni colorate.
La preparazione degli articoli che trattano questi temi prevede in primis uno schema di Storyboard in cui vengono distinte le seguenti fasi:
Per i giornalisti italiani, la fonte più autorevole di dati è certamente il sito dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), https://www.isprambiente.gov.it/it). Qui si possono facilmente reperire indicatori, dati storici e di tendenza, il quadro normativo di riferimento e le spiegazioni approfondite su politiche e misure di adattamento climatico. Le notizie sono capillari su tutto il territorio italiano e si possono ricavare grafici molto leggibili con i dati più disparati, come grafici a linea e istogrammi con elaborazioni già pronte. Le anomalie che emergono dal suolo vengono comparate con valori medi di riferimento. E’ possibile trovare anche ampie sezioni dedicate agli impatti sociali ed economici su un singolo territorio.
Per quanto riguarda la capillarità del territorio è interessante consultare anche il sito di Linea Meteo (www.lineameteo.it). Si tratta di una rete di stazioni amatoriali che risponde però a standard minimi di qualità. Qui i dati sono iper-capillari e si trovano le temperature di un singolo comune in uno specifico giorno. Anche il sito di Lega Ambiente Città Clima (www.cittaclima.it) risulta interessante perché cataloga tutti gli eventi estremi con una mappatura precisa dell’intero territorio italiano.
A livello europeo invece sono sempre più importanti i bollettini del centro di elaborazione Copernicus (https://www.copernicus.eu/en), che mette a disposizione le elaborazioni delle temperature dei mari in real time, l’osservazione sulla superficie terrestre e tante altre variabili soprattutto dell’Oceano glaciale artico, che è una delle zone più monitorate in assoluto del globo. Dal sito di Copernicus è possibile accedere ad uno dei tanti datastore (ad esempio ERA5 Land) che fornisce una serie di informazioni rilevate con cadenza oraria dal 1950 ad oggi. I dati ricavati dal sito di Copernicus sono esportabili in formato Raster (jpeg/gif/png) e richiedono però un minimo di elaborazione.
I satelliti principali utilizzati da Copernicus sono Sentinel-1 per il suolo, fino a 5 metri di risoluzione, Sentinel-2, ottico con risoluzione fino a 10 metri, e Sentinel 5P Tropomi, per monitoraggi in particolare dell’atmosfera.
Spesso le immagini satellitari vengono utilizzate per le eruzioni vulcaniche perché monitorano sia la distribuzione dei gas che la colata lavica. Sono molto utili anche per le alluvioni, per le temperature dei mari, per l’erosione dei ghiacciai e per la misurazione del biossido di azoto delle metropoli.
Per scaricare le informazioni a livello europeo è utile consultare anche il sito www.sentinel-hub.com che acquisisce i diritti da Copernicus e si pone al pubblico come facilitatore e trait d’union per l’elaborazione dei dati.
A livello globale uno dei siti più autorevoli in tema di cambiamento climatico è certamente quello della NASA GISS (Goddard Istitute For Space Studies, https://www.giss.nasa.gov/). Qui si trovano elaborazioni già pronte con dati satellitari o di terra, soprattutto alla voce “Dataset”. Le GIF e animazioni sono costruite per fasce di aree climatiche. Queste mostrano bene che le anomalie maggiori risiedono al Polo Nord ormai da diversi anni. Dai satelliti con la Earth observation si possono ricavare mappe già pronte. In particolare, il satellite ottico LANDSTAT, con risoluzione fino a 30 metri, misura benissimo le temperature del suolo.
Insomma, non è più il tempo di nascondersi dietro al luogo comune che asserisce “non esistono più le mezze stagioni”, perché oggi le informazioni scientifiche che contano sono alla portata di tutti, anche se bisogna imparare a selezionarle attraverso fonti autorevoli, evitando così di finire in mano ad apprendisti stregoni o terrapiattisti.
Aris Baraviera, Milano 1 luglio 2024.
I rifiuti non esistono ma nascono dal modello economico. In natura ogni scarto è cibo per qualcun altro. E’ da questa osservazione della realtà che l’economia circolare tenta di correggere la spirale consumistica della sovrapproduzione. Gestire rifiuti rappresenta sempre un costo netto per la società, sia in termini economici che ambientali, e per questo il modello circolare, dove invece di rifiuti ci sono scarti, è intuitivamente molto più conveniente. Nella società in cui viviamo purtroppo più c’è Pil e crescita e più c’è consumo di risorse. Gestire rifiuti significa avere“un’esternalità negativa”. L’obiettivo dell’economia circolare è quindi quello di avere dissociazione tra Pil e consumo di risorse, dove inizialmente la dissociazione è relativa, ma poi diventa via via assoluta. Nella prima fase si punta molto al riciclo e nella seconda fase non si hanno più i rifiuti di produzione.
Spesso i rifiuti non vengono citati nella catena di valore delle imprese, ma i numeri italiani sono davvero considerevoli: 30 milioni di tonnellate annue di rifiuti urbani (di cui 7,5 sono rifiuti organici) e 135 milioni di tonnellate di rifiuti speciali industriali. Il business del settore vale 25 milioni di fatturato, 133 mila addetti e 6200 imprese. Il fatturato negli ultimi vent’anni è cresciuto del 30%, l’occupazione del 13%.
I rifiuti cambiano nel tempo e le componenti elettroniche e chimiche aumentano sempre di più. Uno specifico articolo di legge (il numero 183 lettera b- ter e b- sexies) definisce a quale categoria appartengono i rifiuti. Tra i rifiuti urbani abbiamo quelli domestici, quelli abbandonati, il verde pubblico e cimiteriale. Tra i rifiuti speciali industriali distinguiamo i rifiuti di produzione, i rifiuti dell’agricoltura, della silvicoltura e della pesca e i veicoli fuori uso.
Nella raccolta differenziata abbiamo ancora 3 differenti velocità tra nord, centro e sud, anche se la situazione va migliorando. Secondo l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) la classifica vede al primo posto la raccolta di umido, poi viene la carta, il vetro, la plastica, il metallo e il legno. Continua a crescere il trattamento della parte biologica, in particolare dell’umido, dove Milano eccelle nel mondo per il recupero di rifiuti organici e viene studiata e monitorata come esempio e modello da imitare.
Secondo la direttiva europea sulla gestione dei rifiuti c’è una precisa gerarchia di obiettivi. Prima di tutto occorre minimizzarne la quantità, poi bisogna favorire il riutilizzo dei materiali, poi ancora il riprocessamento e termovalorizzazione degli stessi e solo il residuale deve finire in discarica. Per il 2035 il target è avere l’80-85% di raccolta differenziata con un effettivo recupero del 65%. In discarica deve arrivare massimo il 10% dei rifiuti complessivi e gli imballaggi devono essere riciclati al 70%. (l’Italia è già al 71,7%, ma la media europea al 64%). Il riciclo dei rifiuti urbani è già cresciuto in Italia al 49,2%, contro una media europea del 48,6%. Nella penisola viene smaltito solo il 21% dei rifiuti totali contro una media europea del 49%.
L'Italia è la prima fra i grandi paesi dell'Unione europea per economia circolare. Lo rivela anche il 6° Rapporto del Circular Economy Network (Cen) e di Enea, presentato alla Conferenza annuale sull'economia circolare lo scorso maggio a Roma. Le performance di circolarità delle 5 maggiori economie dell'Ue (Italia, Francia, Germania, Spagna e Polonia) sono state comparate usando gli indicatori della Commissione europea. L'Italia è prima con 45 punti, seguita da Germania (38), Francia (30) Polonia e Spagna (26). Tuttavia, in base alla dinamica degli ultimi 5 anni, si segnala una certa difficoltà dell'Italia a mantenere questa leadership. «Puntare sulla circolarità deve essere la via maestra per accelerare la transizione ecologica e climatica e aumentare la competitività delle nostre imprese». Lo ha dichiarato Edo Ronchi, presidente del Circular Economy Network, alla 6° Conferenza Nazionale sull'economia circolare. «Ancora di più - ha proseguito Ronchi - per un Paese povero di materie prime e soprattutto, nel contesto attuale, caratterizzato da una bassa crescita e dai vincoli stringenti del rientro del debito pubblico. L'Italia può e deve fare di più per promuovere e migliorare la circolarità della nostra economia, con misure a monte dell'uso dei prodotti per contrastare sprechi, consumismo e aumentare efficienza e risparmio di risorse nelle produzioni; nell'uso dei prodotti, promuovendo l'uso prolungato, il riutilizzo, la riparazione, l'uso condiviso; e a fine uso, potenziando e migliorando la qualità del riciclo e l'utilizzo delle materie prime seconde».
L’Unione Europea spinge molto per l’End of Wast, che è il processo attraverso il quale un rifiuto cessa di essere tale e diventa materia prima mediante recupero e lavorazione. Spinge anche per il reimpiego del sottoprodotto, cioè del rifiuto non trattato che viene già considerato materia prima.
Strumenti normatori sono stati pensati e creati per supportare il mercato dell’End of Wast che ad esempio vede il reimpiego della carta: molte industrie vengono obbligate per legge ad acquistare un minimo di prodotti End of Wast.
Un settore che sta crescendo e su cui si hanno molte aspettative è quello delle bioplastiche, cioè le plastiche che nascono da svariate sostanze vegetali nuove e “digeribili” in tempi più o meno lunghi grazie ai micro-batteri. Come sappiamo, invece, la plastica classica, pur essendo di origini vegetali antiche – infatti viene prodotta dal petrolio -- non è biodegradabile al pari di tante materie artificiali che non sono presenti in natura. La biodegradazione non si può determinare come teoria a tavolino ma deve essere provata attraverso la sperimentazione. In particolare, le bioplastiche devono essere del medesimo tipo per risultare biodegradabili e quelle di materia pura vengono riciclate come l’umido di cucina mediante compostaggio. Il compostaggio avviene in condizioni controllate e produce il compost, una specie di terriccio scuro molto fertile. Lo standard di compostabilità è fatto dal CEN (Comitato Europeo di Normazione) e si chiama UNI EN 13432. E’ uno standard armonizzato compatibile con la direttiva e con le leggi nazionali e coinvolge un certificatore di processo che rilascia l’etichetta quale garanzia. Le bioplastiche devono essere prima di tutto biodegradabili, ma anche disintegrabili (ad esempio non devono contenere cortecce di alberi), prive di metalli pesanti e non devono causare impatti negativi sul compostaggio.
Dopo anni di economia cosiddetta “lineare” siamo finalmente entrati nell’epoca dell’economia “recycling” in attesa della vera e propria economia “circular”, cioè senza esternalità negativa. Le sfide del futuro prevedono appunto l’economia circolare come nuovo paradigma, con prodotti pensati già dalla creazione in ottica rigenerativa e riutilizzati per altri fini, con un’economia circolare, motore e leva di nuova occupazione e crescita del PIL. Insomma, ci aspetta un futuro con tanti scarti ma senza i rifiuti. Tutto scorre, diceva una volta il filosofo Eraclito.
Aris Baraviera, Milano 1 giugno 2024.
IL consumo di suolo e i possibili rimedi (photo by Wikipedia)
Il suolo nelle definizioni moderne viene considerato la “pelle viva della Terra”. E’ composto da elementi minerali e organici, oltre che da aria e acqua. Gli elementi minerali sono particelle come sabbia, limo e argilla, gli elementi organici derivano invece da organismi viventi come piante, batteri, miceti, fauna e loro residui.
Il suolo inteso come le terre emerse nel mondo occupa una superficie di 150 milioni di km2, dei quali circa un terzo risulta coltivabile. Per fini di classificazione, il limite inferiore di un suolo viene convenzionalmente fissato ad una profondità di 200 cm dall'insieme dei corpi rocciosi inalterati.
A partire dal secondo dopoguerra del Novecento il suolo si è molto deteriorato per l’azione dell’uomo e negli ultimi 30 anni anche per il cambiamento climatico. In Africa e nei paesi più poveri il deterioramento è avvenuto soprattutto a causa delle tecniche rudimentali di fertilizzazione denominate “slash and burn” (taglia e brucia), invece nel mondo più sviluppato per la cosiddetta “sigillazione del suolo” che ha visto la copertura con vaste zone di cemento e asfalto. Le altre due grandi cause del deterioramento del suolo sono la salinizzazione (+30% in 70 anni) e la diminuzione progressiva del permafrost, cioè del suolo ghiacciato ai poli e in montagna. Anche l’inquinamento da rifiuti non ha avuto un impatto trascurabile perché ormai nel suolo c’è tantissima plastica, più di quella presente nei mari. Ad esempio nel Deserto del Sahara sono disseminate ovunque bottigliette di plastica, così come nei campi agricoli di tanti paesi del mondo si trovano tubi di plastica accatastati che spesso vengono bruciati e che finiscono col generare microparticelle pericolose per la salute degli esseri viventi.
In Italia il consumo di suolo ha ormai superato il 7% e la via di non ritorno secondo gli esperti è poco sopra, cioè all’8%. I terreni in alcune città hanno perso il 90% della materia organica e dunque si sono impoveriti. Sempre in Italia, ci sono circa 32.000 siti inquinati che se venissero coltivati potrebbero creare problemi alla salute dell’uomo, inoltre si riscontra un abbandono delle terre periferiche coltivabili, soprattutto in collina e in montagna, che favorisce l’erosione del suolo.
Ci sono zone della Penisola dove il mantenimento del suolo è vitale per evitare disastri naturali come frane e inondazioni, mentre nelle città i terreni andrebbero curati maggiormente al fine di evitare il sollevamento da terra delle polveri sottili (PM 2,5 e PM 10) contenenti plastica e metalli pesanti prodotti dall’inquinamento, polveri che se inalate possono compromettere la salute delle persone.
Il ciclo dell’azoto e del carbonio lega i cicli vitali. In questo il suolo rappresenta il principale deposito di carbonio attivo del pianeta. Il carbonio presente naturalmente nel suolo è il doppio di quello dell’atmosfera e il triplo di quello presente nella vegetazione. Ogni anno oltre un miliardo di tonnellate di carbonio viene liberato nell’aria a causa dello sfruttamento del suolo, mentre 7 miliardi di tonnellate vengono rilasciate nell’aria per l’utilizzo smodato delle fonti fossili. Il carbonio va così ad alzare i livelli di anidride carbonica già presenti in atmosfera che contribuiscono ad aumentare le temperature della Terra.
A partire dall’Agenda Onu sottoscritta nel 2015 e soprattutto con il Green Deal europeo, si riscontra un’attenzione maggiore alla salute del suolo specialmente nell’ottica di preservarne la biodiversità. La strategia europea prevede il ripristino della salute di almeno il 70% delle superfici, la riduzione dei pesticidi, un maggiore assorbimento dei gas serra e una qualità che deve crescere soprattutto attraverso l’introduzione di sostanze organiche, con terreni più porosi e più ricchi di ossigeno.
Per ripristinare i suoli si punta molto sul compost. Il compost, detto anche terricciato o composta, è il risultato della bio-ossidazione e dell'umidificazione di un misto di materie organiche (residui di potatura, scarti di cucina, letame, liquame, rifiuti del giardinaggio come foglie e erba falciata) da parte di macro e microorganismi in condizioni particolari: presenza di ossigeno ed equilibrio tra gli elementi chimici della materia coinvolta nella trasformazione.
Il compost può essere usato come fertilizzante, trattiene CO2 nel suolo e serve anche per produrre energia elettrica, il biometano e l’energia termica. In Italia oggi ci sono 360 impianti attivi di compostaggio. In Europa vengono trattati 71 milioni di tonnellate annue di rifiuti organici che producono 21 milioni di tonnellate di compost (in Italia 2,189 milioni). Il compost soddisfa il 2% del fabbisogno agricolo e tampona il 16% delle terre erose. Entro il 2035 la produzione verrà però più che raddoppiata.
Il Compost ACV è formato da scarti di matrice vegetale, l’ACM con scarti vegetali e organici e l’ACF con scarti di vegetali e fanghi. Purtroppo il basso valore economico ne rallenta la crescita del business, che ammonta a soli 200 milioni di euro. Infatti una tonnellata di compost vale solo 5/10 euro e pertanto il settore cresce meno velocemente di quello che sarebbe auspicabile.
Per migliorare le prestazioni dei suoli in agricoltura, da alcuni anni vengono usate delle bioplastiche compostabili, una sorta di teli che coprono interamente le colture e le terre coltivate. La tecnica viene chiamata pacciamatura biodegradabile in biologico e serve prevalentemente per ridurre le erbe infestanti e migliorare la performance del terreno. Il biotelo infatti riduce l’evaporazione dell’acqua e quindi preserva l’umidità, aumenta la temperatura del terreno che a sua volta fa aumentare le dimensioni delle radici e favorisce la proliferazione di microorganismi. Il telo degradandosi rilascia carbonio, acqua, idrogeno e sostanze organiche. La tecnica della pacciamatura biodegradabile migliora la produzione del 35-40% e viene usata soprattutto nella coltivazione del pomodoro.
A pochi mesi dall’elezioni europee c’è però una corsa a depotenziare la transizione green in nome delle supreme ragioni dell’economia, che sembrano accogliere le istanze di chi produce energia, di chi la utilizza e degli agricoltori che bloccano le città. Bisognerebbe invece pensare a come salvare (e salvarsi) la pelle.
Aris Baraviera, Milano, 15 marzo 2024.
Successi e compromessi della COP28 secondo la Redazione di Runninginthepark
Per comprendere a pieno il global warming è necessario rivedere l’immagine classica della catastrofe smettendo di aspettare un momento clou, ma cogliendo tutte quelle sfumature che il cambiamento climatico sta proponendo in maniera nemmeno troppo sottile. Una lenta e inesorabile serie di piccoli fenomeni estremi, sempre più frequenti ed intensi, che di recente il segretario generale dell’Onu Guterres ha descritto con la metafora “dell’ebollizione globale”.
Si sapeva già che le grandi aspettative sulla Conferenza delle Parti (la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2023, conosciuta anche come COP28), si sarebbero dovute scontrare con negoziazioni climatiche macchinose, tra Stati che hanno interessi spesso completamente diversi. Erano attesi significativi passi in avanti sull’istituzione del fondo per i Paesi più minacciati dai disastri ambientali, e nello stesso tempo ci si aspettava che la strada per la riduzione dei combustibili fossili sarebbe stata piuttosto ripida e tortuosa, anche perché la Conferenza si giocava in casa di Sultan Ahmed Al-Jaber, presidente del summit e CEO di Adnoc, azienda statale petrolifera degli Emirati Arabi Uniti.
Già dalle prime battute della Conferenza si è capito che l’Aosis (Alliance of Small Island States) voleva farsi particolarmente sentire. Si tratta di un gruppo di 39 nazioni insulari dei Caraibi, dell’Oceano Pacifico e dell’Oceano Indiano particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici, e che hanno già subìto la scomparsa di alcuni isolotti inghiottiti dal livello crescente delle acque dei mari. Così come si è intuito fin da subito che il Sultano padrone di casa avrebbe alzato la posta in gioco proponendo qualche azione tattica in salsa greenwashing e facendo dichiarazioni da negazionista, salvo poi aprire la strada a più ragionevoli compromessi.
Già il 30 novembre, giorno di apertura dei lavori di Dubai, è stato raggiunto un accordo per rendere operativo il Fondo “Loss and Damage” destinato a favorire la transizione nei Paesi in via di sviluppo particolarmente vulnerabili agli effetti negativi del cambiamento climatico. Trovato anche l’accordo sul funzionamento del fondo che sarà amministrato provvisoriamente per almeno 4 anni dalla Banca Mondiale, a cui si affiancherà un board composto da 26 membri. L’obiettivo minimo è raggiungere 100 miliardi di dollari all'anno di finanziamenti entro il 2030 ma, secondo quanto stimato dai Paesi in via di sviluppo, il fabbisogno effettivo è più vicino ai 400 miliardi di dollari all'anno.
Dal documento finale approvato, il Global Stoketake (letteralmente il bilancio globale), emerge una affermazione chiara in cui si riconosce che le emissioni di gas serra sono dovute all’attività umana, che hanno contribuito in modo inequivocabile a causare l’aumento medio della temperatura mondiale di 1,1 gradi centigradi. Il testo riconosce che è necessario limitare il riscaldamento globale entro 1,5 gradi (obiettivo già fissato nel 2015 a Parigi) senza superare la soglia o con un superamento limitato. Per contenere le temperature devono essere ridotte in modo profondo, rapido duraturo le emissioni globali di gas serra pari al 43% entro il 2030 e al 60% entro il 2035, rispetto ai livelli del 2019, raggiungendo zero emissioni nette entro il 2050. Il picco massimo di emissioni dovrà essere raggiunto indicativamente entro il 2025. E’ compito dei singoli Stati attuare gli impegni presi, mantenendo però una certa flessibilità sul come raggiungerli. Un momento in cui si potrà testare la reale portata dell’accordo raggiunto nella COP28 sarà il 2025 quando, in occasione della COP30, in Brasile, gli Stati dovranno comunicare le nuove misure (i famosi NDC) di azione climatica che, a quel punto, dovranno essere coerenti con gli impegni assunti a Dubai.
Per quanto riguarda petrolio, carbone e gas, nel testo definitivo si parla di “transitioning away” (letteralmente fuoriuscire) dai combustibili fossili nei sistemi energetici “in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050, in linea con la scienza”. Molti Paesi come quelli europei e l’Aosis speravano di concordare una eliminazione graduale ma certa e completa dei combustibili fossili, che i produttori però hanno rifiutato di sottoscrivere. L’accordo prevede che solo l’energia da carbone “non smaltita” sarà gradualmente eliminata, lasciando quindi la possibilità di continuare a usare quella le cui emissioni verranno catturate alla fonte. Le previsioni ottimistiche suggeriscono che petrolio e gas avranno ancora un ruolo importante, bilanciato però dalle tecnologie che elimineranno le loro emissioni serra, anche dopo il 2050 con il raggiungimento teorico del Net Zero. L’assenza di vincoli precisi per gli Stati rappresenta il peccato originale che si trascina Cop dopo Cop. Restano quindi due velocità e un distacco ancora molto evidente tra scienza e politica, perché sul fronte politico la dichiarazione sui combustibili è stata considerata un successo favorito dall’intesa pre-Cop tra Cina e Usa che ha spianato la strada al successivo compromesso.
Per quanto riguarda le altre azioni, il documento finale mette nero su bianco la volontà di triplicare la capacità di energia rinnovabile a livello globale e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030. Non ci sono però riferimenti a quantificazioni, così come preteso da Cina e India.
Secondo la Redazione di Runninginthepark, è chiaro come il negazionismo climatico ai summit sopravviva solo sulle istanze tattiche e sui conflitti di interesse dei player in gioco, ma non abbia ormai più alcun tipo di credito come tesi o antitesi scientifica, nemmeno nella sua forma più dubitativa, cioè quella che afferma che le rilevazioni statistiche siano troppo limitate per arrivare a conclusioni definitive e certe. Il segnale dato quindi è forte ma purtroppo la sostanza è ancora debole perché i tempi della politica sono più lunghi di quelli che auspica la scienza.
Secondo uno studio appena pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, l’incremento di 1,5 gradi della temperatura media verrà raggiunto tra 6 anni e a fine secolo si potrebbe arrivare ad un incremento medio di 3 gradi centigradi.
In ogni caso un plauso secondo noi lo merita Simon Stiell (il segretario esecutivo dell’UNFCCC, la Convenzione quadro dell’Onu sul clima) per la sua vocazione e perseveranza al compromesso, così come lo merita anche Guterres, impavido segretario delle Nazioni Unite, che non rinuncia mai a dire le cose che vanno dette anche se è il leader di un’istituzione indebolita dalle Grandi Potenze della Terra e che certamente è meno autorevole e influente di quello che era solo 20 anni fa.
Insomma, alla Cop28 non c’è stato l’accordo storico di cui il mondo aveva bisogno, ma qualcosa è stato ottenuto, almeno nelle intenzioni, e questo non è poco per un pianeta che ribolle non solo come clima, ma anche a causa dei nuovi equilibri geopolitici e delle guerre la cui fine non si intravede nemmeno.
Aris Baraviera, Milano, 15 gennaio 2024.
Gli italiani e il greenwashing
Gli italiani sono attenti alla sostenibilità, si informano e ne discutono. Lo dimostrano i risultati del 9° Osservatorio nazionale sullo stile di vita Sostenibile di Lifegate presentato a Milano lo scorso ottobre (https://www.lifegate.it/longform/osservatorio2023).
Nel 2023 scettici e indecisi sono una netta minoranza: per il 79 per cento degli italiani la sostenibilità è ormai un tema sentito. Il 40 per cento si definisce addirittura appassionato al tema, il 39 per cento interessato. Solo il 21 per cento è del tutto disinteressato. Scettici e indecisi calano del 6 per cento rispetto all’anno precedente. Soltanto 8 anni fa, il 40 per cento dei nostri connazionali la bollava come una moda passeggera e un altro 12 per cento era indeciso: sommando questi due dati si superava la metà della popolazione.
Fra gli argomenti che scuotono le coscienze c’è innanzitutto la crisi climatica. Ormai il 78 per cento degli italiani sa cosa significa, ben nove punti percentuali in più rispetto all’anno scorso.
Dal sondaggio emerge tuttavia una certa diffidenza rispetto a quanto siano sinceri gli obiettivi di sostenibilità promossi dalle aziende. Il 49 per cento li considera come manovre di marketing, cioè tentativi di presentarsi sotto una veste sostenibile senza che alla base ci siano garanzie tangibili. Il greenwashing, ovvero la tendenza delle aziende a enfatizzare o mistificare le proprie strategie per la transizione sostenibile, è un rischio molto temuto dagli intervistati.
A dare i voti alle aziende italiane in comunicazione della sostenibilità ci ha pensato invece la società di corporate communications Lundquist (https://lundquist.it/2023/11/04/sustainability-whitepaper-2023/) che porta avanti questa indagine dal 2007 e ha pubblicato lo scorso novembre il nuovo ranking tricolore. La ricerca prevede un protocollo di 80 criteri oggettivi, una vera e propria griglia di monitoraggio dei siti web delle imprese analizzate. Fra i criteri considerati ci sono anche i profili Linkedin dell’azienda e, soprattutto, dei top manager. Buona la performance generale su strategia e integrazione, perché emerge che i temi della sostenibilità sono effettivamente presi in grande considerazione dalle imprese. Il ranking aggiornato al 2023, relativo a 85 grandi gruppi italiani, vede ai primi posti Eni, Terna, Generali, Poste e Intesa Sanpaolo. All’ultimo posto c’è invece Nexi. Il collegamento tra strategia di business e strategia di sostenibilità ha pesato molto nella determinazione della classifica.
In generale dalla ricerca emerge però che c’è da colmare un gap di credibilità: il 95 per cento delle aziende presenta un impegno specifico sul climate change, ma soltanto il 58 per cento lo accompagna con obiettivi misurabili ed azioni concrete; questo gap si allarga quando si tratta di diversity e inclusion e su altri temi quali economia circolare, attenzione al territorio e innovazione sostenibile.
Per quanto riguarda la finanza sostenibile, lo scorso 14 novembre è stata presentata alle “Settimane SRI” (del Forum per la Finanza Sostenibile) la ricerca sulla rilevanza dei temi ESG nelle scelte di investimento (https://finanzasostenibile.it/eventi/investimenti-sostenibili-risparmiatori-agroalimentare/). Gli intervistati che ritengono i temi ambientali, sociali e di governance molto rilevanti nelle scelte di investimento si attestano al 24 per cento, abbastanza rilevanti per il 58 per cento. La quota è in lieve calo rispetto al 28 e al 59 per cento registrati nel 2022. I risparmiatori che guardano invece pragmaticamente al possibile investimento in ambiti quali la produzione e l’utilizzo di energie rinnovabili si attesta come l’anno scorso all’80 per cento. Per la metà dei risparmiatori che conoscono gli investimenti sostenibili sono aumentate le informazioni sui prodotti ESG fornite dagli intermediari finanziari, mentre resta fortemente carente (per il 51 per cento) la copertura mediatica sul tema.
Per certi versi addirittura sorprendente il Paper presentato il 16 novembre, nell’ambito della stessa manifestazione denominata “Settimane SRI” (https://finanzasostenibile.it/eventi/finanza-sostenibile-pregiudizi/), con il Forum della Finanza sostenibile arroccato su posizioni molto difensive nel tentativo di smontare le critiche piovute da più parti sui criteri ESG, in particolare in merito alle accuse di greenwashing, di mancanza di standardizzazione e di cattiva relazione tra performance finanziaria e sostenibilità.
Il Paper si pone l’obiettivo di dimostrare l’infondatezza delle accuse da un punto di vista scientifico pur riconoscendo la necessità di miglioramenti continui e di sforzi per sviluppare standard globali e migliorare la trasparenza e la qualità dei dati. Il Paper utilizza fonti affidabili e imparziali ed entra nel merito di questioni specifiche definite pregiudizievoli dall’Associazione che ha sede a Milano e che dal 2001 è attiva nel settore. Vengono sottolineati gli enormi progressi delle normative emanate in Europa e il ruolo attivo degli Stati membri, le mitigazioni dei rischi e le evoluzioni positive delle performance.
Dalle ricerche riportate qui sopra, emerge un timore piuttosto diffuso verso il greenwashing, che infatti sembra essere una pratica ancora marginalmente perseguita e attuata. Una minaccia quindi che incombe sulla sostenibilità, che è considerata l’estensione della Corporate Social Responsibility, dei Social Responsible Investing e del Global Compact, o più semplicemente lo strumento più efficacie e moderno oggi utilizzato nel medio e lungo periodo per la gestione delle imprese nel mercato globalizzato.
Letteralmente il greenwashing andrebbe tradotto come “lavaggio verde”, ma il significato vero è “ambientalismo di facciata”. Il termine nasce dal suffisso di un’altra parola che è “whitewashing” (lavaggio bianco), espressione mutuata dall’edilizia che indica il trucco di dare una mano di pittura bianca su un intonaco danneggiato facendolo apparire nuovo. La parola greenwashing è stata probabilmente coniata nel 1986 dal giornalista freelance e ambientalista Jay Westerveld, che la impiegò per deplorare la pratica delle catene alberghiere che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare i clienti a ridurre il consumo di asciugamani. La vera motivazione dell’invito era di carattere economico, ma nelle comunicazioni veniva raccontata tutt’altra cosa.
Negli anni il termine è diventato sinonimo di false dichiarazioni, o dichiarazioni fuorvianti, esagerate, inconsistenti, approssimative e non accompagnate da prove, sulle questioni ambientali, di responsabilità sociale e di governance. In generale il greenwashing non è però reato. A meno che l’azione stessa non risponda alle caratteristiche di un reato previsto come tale, come la frode in commercio o l’illecita concorrenza. Il rischio vero per chi lo mette in atto è di perdere credibilità verso gli stakeholder e se amplificato dai media anche un grosso problema di immagine e reputazione.
Ovviamente il fenomeno non è certo solo italiano. Curiosa, bizzarra ma anche pericolosa l’idea della modella e imprenditrice statunitense Kim Kardashian, che ha recentemente presentato un reggiseno con finto capezzolo inturgidito contro il cambiamento climatico. Lo spot recita così “Non importa quanto caldo faccia, sembrerà sempre che tu abbia freddo!”. Kardashian rappresenta solo la faccia di un mondo consumista che cerca di utilizzare la crisi climatica per il marketing, senza impegno concreto e in modo palesemente opportunistico.
Vista la grande espansione del greenwashing nella pubblicità e nel marketing, la maggior parte delle legislazioni mondiali, così come l’Europa, stanno pensando di introdurre nuove norme per contrastarlo o di adattare quelle che esistono per limitarlo e regolamentarlo. Inoltre, sta cambiando la sensibilità verso stili di comunicazione o comportamento che erano stati considerati accettabili per decenni. Ad esempio, negli atteggiamenti sessisti ribattezzati pinkwashing, “lavaggio rosa” in cui l’azienda finge di praticare la parità di genere e invece non lo fa.
Concludendo, è possibile affermare che c’è sempre stato e ci sarà sempre chi fa soldi vendendo patacche. In una certa misura fa parte del gioco e per questo occorre rimanere vigili e severi per smascherare operazioni fraudolente. Rispettare i criteri ESG comunque non è e non può essere la perfezione incarnata, ma l’espressione di una volontà di perseguire determinate norme di comportamento e migliorarsi.
Occorre aiutare le piccole imprese a essere più virtuose, come già hanno dimostrato di esserlo le aziende più grandi. E’ necessario farlo convincendo le banche che le finanziano a considerare e pesare maggiormente i rischi di sostenibilità.
Sarebbe auspicabile anche che nelle attività di Investor relations le aziende la smettessero di voler piacere a tutti, cercando invece di attrarre di più gli investitori per affinità di priorità e obiettivi.
Infine, servirebbe un nuovo paradigma della comunicazione ESG: qualcosa di più rivoluzionario rispetto all’idea che la questione si risolva riempiendo questionari e check list e omologandosi a processi di compliance caratterizzati da score difficili da comprendere.
Aris Baraviera, Milano, 15 dicembre 2023
L’attenzione all’ambiente in cui viviamo e alla disponibilità futura delle risorse, la diversità, l’inclusione, l’accoglienza, il rispetto sono concetti tutt’altro che astratti, parole che sempre più orientano le scelte di individui e imprese. Per questo sostenibilità significa anche mettere al centro le persone. Dopo decenni in cui questi temi sono rimasti sottotraccia, finalmente la consapevolezza sta cambiando. Gli italiani sono attenti, si informano e ne discutono sul posto di lavoro, in famiglia, a scuola e nel tempo libero. Lo dimostrano i risultati del 9° Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile di Lifegate, presentato a Villa Necchi Campiglio nel centro di Milano lo scorso 10 ottobre.
Quanto è importante la sostenibilità? Quanto è presente nel bagaglio di conoscenze degli italiani, nei loro atteggiamenti e nei loro comportamenti quotidiani? Queste sono le grandi domande a cui, da ben nove anni consecutivi, risponde l’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile, un progetto immaginato e realizzato da LifeGate, in collaborazione con l’istituto di ricerche di mercato Eumetra. La presentazione di quest’anno è stata moderata dal giornalista Roberto Sposini e ha visto l’avvicendarsi sul palco di personalità di spicco della società civile e del mondo della sostenibilità. I numeri sono stati illustrati con il commento del noto sondaggista Renato Mannheimer.
I risultati del sondaggio sono stati ottenuti con un questionario che è stato sottoposto a un campione di 1.100 persone, rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne. Per avere un quadro più chiaro delle tendenze nelle grandi città, c’è anche stato un sovracampionamento sugli abitanti di Milano e Roma.
L’edizione 2023 dell’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile vanta il patrocinio di Commissione europea, Parlamento europeo, ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica, regione Lombardia, comune di Milano, Assolombarda, Confcommercio e Connect4Climate, ed è stata realizzata con il supporto di Almawave Group, BWH Hotels Italia, Poste Italiane, Gruppo Unipol, Vaillant Italia.
I risultati del sondaggio ci dicono che la sostenibilità è una cosa seria. Di questo gli italiani sembrano ormai convinti. Nel 2015 il 40 per cento dei nostri connazionali la bollava come una moda passeggera e un altro 12 per cento era indeciso: sommando questi due dati, si superava quindi la metà della popolazione. Nel 2023, scettici e indecisi sono una netta minoranza: per il 79 per cento degli italiani la sostenibilità è un tema sentito. Il 40 per cento si definisce addirittura appassionato al tema, il 39 per cento interessato. Solo il 21 per cento è del tutto disinteressato. Scettici e indecisi calano del 6 per cento dall’anno precedente.
Adottare uno stile di vita davvero sostenibile significa avere il coraggio di cambiare lo status quo. E può essere faticoso scardinare alcune vecchie abitudini, prestare attenzione agli sprechi, ponderare gli acquisti. Non c’è dunque da stupirsi se, durante il biennio più intenso della pandemia da coronavirus, il coinvolgimento degli italiani abbia vissuto uno stallo. Oggi però gli stessi sembrano volersi lasciare alle spalle questa fase di chiusura forzata in se stessi. Di elementi esterni destabilizzanti ce ne sono ancora, a partire dalla guerra in Ucraina (e da quella appena scoppiata tra Israele e Palestina) e dalla crisi dei prezzi che ha generato. Eppure, i nostri connazionali hanno voglia di guardare al futuro. Tornano a riflettere sulla sostenibilità, a discuterne, a farla propria.
Fra gli argomenti che scuotono le coscienze c’è innanzitutto la crisi climatica. Ormai il 78 per cento degli italiani sa cosa significa, ben nove punti percentuali in più rispetto all’anno scorso. Sono ancora di più coloro che si dicono preoccupati (l’85% per cento) e che chiedono a gran voce di sostenere la battaglia contro i cambiamenti climatici (l’86 per cento). Oggi, qualsiasi italiano potrebbe citare fenomeni a cui ha assistito in prima persona, per esempio la tempesta Vaia del 2018, la grande siccità dell'estate 2022 e gli incendi che nell'arco di alcuni anni hanno ridotto in cenere miglia di ettari di vegetazione, e ancora la tragedia della Marmolada del 2022 e le alluvione recenti di Emilia Romagna e Toscana. L’assessora Elena Grandi del Comune di Milano ha ricordato che lo scorso luglio nel capoluogo lombardo si sono persi 10.000 alberi in un solo giorno a causa di un uragano.
Per gli italiani, insomma, interessarsi al clima non è più soltanto un segnale di consapevolezza. È anche una necessità impellente. Perché il clima determina, e determinerà sempre più in futuro, la scelta di dove vivere. Di come proteggere i propri beni materiali, a partire dalla casa (un italiano su quattro si dice disposto a stipulare una polizza contro i danni degli eventi meteo estremo, anche a costo di pagare di più). Giulia Balugani di Sai Assicurazione ha descritto la tendenza in atto, Tommaso Perrone direttore di Lifegate ha parlato del significato dell’impronta di sostenibilità, e la biologa Chiara Lombardi ha introdotto il tema delle soluzioni di mitigazione per gli ecosistemi.
Giorgio Vacchiano dell’Università Statale di Milano ha invece fatto il punto sulle prospettive per il futuro, spiegando che le previsioni sul clima dell’IPCC mostrano un picco delle emissioni di carbonio nel 2025. La neutralità climatica potrebbe essere raggiunta solo a partire dal 2050. Questo significa che le temperature medie sono destinate a salire ancora per molti anni e solo dopo aver raggiunto la neutralità climatica le stesse potrebbero arrestare la loro ascesa, e addirittura anche calare nel caso in cui le emissioni nette in atmosfera diventassero di segno negativo (nella migliore ipotesi a partire dal 2055/2060). L’auspicabile inversione del trend sul fenomeno in corso dello scioglimento dei ghiacciai e dell’innalzamento del livello dei mari richiede invece tempi più lunghi, e per tale motivo si ragiona già oltre la fine del secolo in corso.
Il tema energetico è stato trattato con la partecipazione di Stefano Fumi di PostePay e del presidente della Fondazione Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, che ha parlato delle prossime elezioni europee come punto di svolta.
La crisi legata al conflitto ucraino e l’aumento dei costi del gas hanno spinto gli italiani a riflettere sempre di più sui propri consumi e a valutare soluzioni per ridurre la dipendenza energetica nazionale. Nell’attuale scenario, le energie rinnovabili e la transizione energetica sono diventati temi molto dibattuti: rispettivamente il 78 per cento e il 52 per cento degli italiani ne hanno già sentito parlare .
La transizione energetica non riguarda solo la lotta contro il riscaldamento globale: per molte persone rappresenta anche un’opportunità per raggiungere l’indipendenza energetica e risparmiare. Un dato significativo di quest’anno è l’aumento delle persone che considerano prioritario ripristinare le vecchie centrali nucleari e costruirne nuove: si arriva al 17 per cento, con un balzo in avanti di sei punti percentuali sull’anno precedente. Il professor Mauro Magatti, sociologo, ha parlato della necessità del cambiamento culturale per la sostenibilità.
C’è poi il tema delle automobili. A partire dal 2035, tutte le nuove auto e i van destinati al mercato europero dovranno avere emissioni zero, in conformità alle direttive europee che puntano a rendere il settore dei trasporti completamente sostenibile entro il 2050. Secondo i dati prodotti dall’Osservatorio, se da una parte il 71 per cento degli italiani pensa sia giusto che un paese incentivi l’acquisto di autoveicoli elettrici, nella pratica sono ancora poche le persone che hanno fatto il passo di utilizzarne regolarmente uno (solo il 9 per cento). Per il 41 per cento delle persone intervistate, nel prossimo futuro le case automobilistiche saranno in difficoltà ad adattare le produzioni, l’occupazione del settore vivrà momenti difficili e il prezzo di mercato delle nuove auto aumenterà. Anche se le normative europee tendono a stimolare l’innovazione e la concorrenza portando potenzialmente a prezzi d’acquisto sempre più bassi, e le case automobilistiche sono già all’opera per questo, le auto elettriche sembrano ancora costare di più rispetto a quelle con motori tradizionali e gli incentivi non sono ancora strutturali.
Di resposabilità sociale d'impresa (CSR) si è parlato con la direttrice di Lifegate Simona Roveda, con Enea Roveda, sempre di Lifegate, con Marco Barbieri segretario di Unione Confcommercio di Milano, Lodi e Monza e con Valeria Sandei, CEO di Almawave.
Se in passato i consumatori si fermavano a considerare la qualità e il prezzo di un prodotto o di un servizio, ora acquistano sempre più da aziende che offrono prodotti e servizi sostenibili (61 per cento) o dotate di certificazioni (54 per cento). Valutano la trasparenza e l’onestà delle imprese, tanto da considerarle fattori cruciali nelle decisioni di acquisto. Gli italiani apprezzano la chiarezza sull’origine dei prodotti, sull’utilizzo responsabile delle risorse, sul ricorso a energie rinnovabili, ma anche sul rispetto dei diritti dei lavoratori e sull’impegno nelle tematiche di diversità e inclusione. Tuttavia, un dato emerge con chiarezza: una certa diffidenza rispetto a quanto siano sinceri gli obiettivi di sostenibilità promossi dalle aziende. Quasi la metà delle persone (49 per cento) li bolla come manovre di marketing, cioè tentativi di presentarsi sotto una veste sostenibile senza che alla base ci siano garanzie tangibili. Il greenwashing, ovvero la tendenza delle aziende a enfatizzare o mistificare le proprie strategie per la transizione sostenibile, è un rischio molto temuto dagli intervistati.
Di diversity e inclusion hanno parlato il giornalista Benedetto Cosmi, lo scrittore e docente Alessio Carciofi, la psicologa Elisa Piscitelli, la formatrice Corena Pezzella e il CEO di Lifegate Omar Bertoni. Un italiano su tre ha già sentito parlare delle politiche di diversity e inclusion, cioè quelle con cui le imprese si impegnano a valorizzare il potenziale individuale dei collaboratori, riconoscendo le differenze e contrastando le discriminazioni. È ancora piuttosto raro però che queste politiche diventino un criterio per preferire un determinato brand a un altro. Soltanto il 12 per cento degli intervistati sostiene di prenderle in considerazione nelle scelte di acquisto. Insomma, i dati migliorano di anno in anno, ma c’è ancora tanto da lavorare per immaginare un futuro in cui ci sarà spazio solo per gli operatori economici responsabili.
Aris Baraviera, Milano, 15 novembre 2023.
La sostenibilità guarda alle nuove generazioni, ma il clima di domani si decide oggi
La sostenibilità, con tutti i temi che porta con sé, fa ormai parte della quotidianità di ogni cittadino italiano, così come di ogni cittadino del mondo: si trova sui giornali, negli spot TV, sui social, si ascolta in dichiarazione di imprenditori, politici e influencer.
Emergenza climatica, disparità di reddito, diritto alla salute e all’istruzione, malnutrizione, scarsità di cibo, inquinamento, crisi di fiducia, discriminazioni, correttezza verso i dipendenti e collaboratori sono diventati nel volgere di un ventennio i temi centrali sui quali anche le aziende sono chiamate a rispondere mettendo in gioco la propria reputazione.
Molte imprese, soprattutto in passato, hanno lavorato mostrando resistenza al miglioramento sociale o ambientale, ed è per questo che spesso si pensa che le aziende, soprattutto le più grandi, producano profitto curandosi meno dei problemi creati dalle loro attività. Ma, oggi, non è più possibile trarre profitto a lungo termine senza farsi carico delle istanze degli stakeholder (persone e organizzazioni che hanno legittime aspettative economiche e sociali nei confronti di un’azienda) e più in generale di consumatori e cittadini. In sostanza, oggi si guarda alle imprese non solo come parte del problema, ma anche come fonte di una possibile soluzione. Esiste di fatto una vera e propria “cittadinanza d’impresa” che include etica, sostenibilità ambientale, responsabilità sociale, uguaglianza e inclusione.
L’impegno a fare impresa secondo un modello di sostenibilità nasce con il Global Compact delle Nazioni Unite (1999-2004) e con la volontà di promuovere un'economia globale rispettosa dei diritti umani e del lavoro, della salvaguardia dell'ambiente e della lotta alla corruzione. Un ulteriore grande impulso arriva con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite siglata a New York nel 2015, che prevede il raggiungimento dei 17 obiettivi e 169 sotto-obiettivi di sviluppo sostenibile. L’anno prima con la Direttiva 2014/95 del Parlamento Europeo (“NFRD”) venivano introdotti in Europa nuovi standard minimi di reporting in materia ambientale e sociale, rivisti e ampliati poi con la Direttiva 2022/2464 (CSRD) che apporta delle modifiche che impatteranno gradualmente a partire dal prossimo anno.
Oggi per un’azienda essere sostenibile significa saper creare valore sociale e valore economico contemporaneamente, mitigando al massimo gli impatti che ci possono essere sulle risorse e sull’ambiente, generando in sostanza benefici e ricchezza per la comunità. La sostenibilità va inoltre comunicata in maniera consapevole, e se si raccontano fatti non veri o verificabili si rischiano ritorni reputazionali pesantemente negativi che vanno ad incidere sul conto economico.
La tendenza in atto è che le imprese hanno capito che non possono più limitarsi allo storytelling, ma devono mettere in atto anche lo “storydoing”, cioè devono comunicare le cose fatte, non le buone intenzioni. La cattiva abitudine del greenwashing (ambientalismo di facciata) nasce infatti da una comunicazione falsa, esagerata o mistificata, da una promessa non mantenuta. Rispettare quindi i criteri di sostenibilità vuol dire esprimere una volontà di perseguire determinate norme di comportamento e di migliorarsi rispetto al passato, non significa necessariamente incarnare la perfezione.
Il termine moderno di sostenibilità discende dal significato di sviluppo sostenibile e trova applicazione in tanti ambiti. Per esempio, abbiamo la sostenibilità ambientale, energetica, alimentare, finanziaria etc. E' un termine che indica che qualcosa può essere mantenuto a un certo livello nel tempo e che di fatto sta in piedi. Il termine sviluppo sostenibile nasce già nel 1987 dal Rapporto Brundtland (Report of the World Commission on Environment and Development) in cui ne è contenuta in primis la definizione. Con tale Rapporto per la prima volta viene evidenziata l’urgenza di risolvere i problemi delle risorse energetiche non rinnovabili, le criticità legate all’inquinamento e alle carenze globali dal punto di vista alimentare. L’Agenda 21, siglata invece nel 1992 da 170 paesi di tutto il mondo, definiva le informazioni statistiche propedeutiche all’individuazione degli obiettivi dello sviluppo sostenibile.
A livello di humus culturale si può ritenere che la sostenibilità si sia giovata della Corporate Social Responsibility e del Social Responsible Investing, che di fatto negli ultimi decenni dello scorso secolo avevano cercato di contrastare le teorie liberiste della “scuola di Chicago” capitanata dal premio Nobel (1976) Milton Friedman.
E’ dopo le proteste sociali degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, in diversi paesi occidentali, che il comitato dei CEO (amministratori delegati) delle imprese statunitensi fondato trent’anni prima (Committee for Economic Development of The Conference Board) coltiva l’idea che sia necessario elaborare una modalità per ottenere il consenso della società civile per ridurre attriti e contrapposizioni. Le prime iniziative messe in campo sono quelle di comunicare la volontà di creare posti di lavoro, gestire le aziende in maniera onesta e di migliorare le condizioni dell’ambiente in cui vivono le persone. La CSR (Corporate Social Responsibility) nasce convenzionalmente con il filosofo e insegnante statunitense Robert Edward Freeman autore nel 1984 del primo saggio in cui vengono citati gli Stakeholder, cioè i portatori di interesse di una data azienda. Nel 1977 però si era già avuta una prima definizione di CSR dal professore statunitense Archie Carrol.
Lo SRI (Social Responsible Investing) è una categoria di investimenti sociali responsabili ed etici che fa riferimento agli investimenti etici americani degli anni Sessanta e Settanta, sviluppatosi anche in Italia a partire dagli anni Novanta. Con il termine SRI oggi si fa riferimento alle scelte di esclusione di alcuni settori controversi nella fase di screening degli investimenti (negative screening). Tipici settori di esclusione sono stati quelli del tabacco, del gioco d’azzardo, delle armi, della pornografia e più di recente dell’estrazione di combustibili fossili.
La sostenibilità oggi è finanziata dai grandi investitori istituzionali, come banche d’affari, fondi pensione, fondi di investimento e assicurazioni. Il termine ESG (Environmental Social Governance) viene infatti usato prevalentemente nell’ambito degli investimenti e dei mercati finanziari.
Con i sei Principi ONU (UN PRI) del 2006 si afferma l’idea di finanza sostenibile, cioè di quella finanza che deve convogliare le risorse necessarie alla transizione energetica ed economica. Nel 2012 arrivano invece i quattro Principi ONU per l’assicurazione sostenibile (UN PSI).
Nel 2018 (e nel 2021) l’Unione Europea lancia l’Action Plan fissando così i 10 punti della finanza sostenibile. Nell’ambito del Piano si inseriscono sia nuove iniziative normative, sia la revisione della normativa vigente, al fine di includere tutti gli aspetti connessi alla finanza sostenibile nella prestazione dei servizi finanziari: il Regolamento UE 2019/2088 SFDR (Sustainable Finance Disclosure Regulation); il Regolamento UE 2020/85 sulla Tassonomia; il Regolamento delegato UE sulle Preferenze di sostenibilità (2021/1253) che modifica la MiFID.
Nel 2019 escono anche i sei Principi ONU per l’attività bancaria responsabile (Prb, UNEP) che si inseriscono nella cornice delineata dall’Agenda 2030.
Se la sostenibilità non fosse un fenomeno così strutturato, si potrebbe affermare che è solo una moda del buon senso e che finalmente l’umanità si preoccupa anche per le generazioni future, cercando per quanto possibile di non depauperare tutte le risorse disponibili oggi. Per fortuna giovani e giovanissimi sono molto sensibili al tema e nelle scuole l’educazione ambientale e civica sta facendo davvero passi da gigante, e questo fa credere che si possa guardare al futuro con occhi pieni di speranza e positività.
Tra i temi della sostenibilità però ce n’è uno che desta più di una preoccupazione e che deve essere assolutamente gestito con urgenza dalle classi dirigenti di oggi, e dagli “over”, ovviamente con l’aiuto di tutti. E’ un problema che se non viene in qualche modo limitato adesso potrà essere pesantissimo per i giovani e soprattutto per le prossime generazioni: si tratta dell’emergenza climatica, che potrebbe addirittura rendere invivibile il pianeta Terra in un futuro non troppo lontano.
Il dibattito sul cambiamento climatico nasce nel 1979, con la Convenzione di Ginevra sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza (UNECE). La tappa più importante però è sicuramente stata il Summit della Terra svoltosi a Rio de Janeiro nel 1992, la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente, che ha istituito la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). La convenzione entra in vigore nel 1994 e la prima Conferenza delle parti, cioè degli Stati firmatari, si tiene a Berlino nel 1995 (COP1). L’Accordo di Parigi del 2015 per il cambiamento climatico dell’UNFCCC, firmato alla COP21 da 197 Paesi, rilancia l’impegno globale dopo le palesi difficoltà manifestate dal Protocollo di Kyoto, siglato nel 1997 (COP3), ed entrato in vigore già depotenziato dopo otto anni, nel 2005. L’ultima Conferenza delle Parti, cioè la più recente, si è svolta a Sharm El-Sheikh nel 2022 (COP27), dove si sono avute anche la Conferenza delle Parti aderenti al Protocollo di Kyoto (CMP17) e la sessione della Conferenza delle Parti aderenti all’Accordo di Parigi (CMA4).
Nel 2019 con il Green Deal della Commissione Europea, l’Europa fissa al 2050 la neutralità climatica, e con il successivo pacchetto “Fit for 55” prevede di ridurre del 55% le emissioni entro il 2030. Il Next Generation EU del 2020 si propone invece di finanziare il percorso di riconversione energetica ed economica dei paesi europei dopo la pandemia da coronavirus 2019.
Il segretario dell’Onu Antònio Guterres nel 2019 più volte ha ripetuto che “l’atteggiamento umano deve cambiare perché sono possibili forti cambiamenti climatici ed estinzioni di massa”. Lo scorso settembre, addirittura, dopo aver ricevuto i dati delle misurazioni di luglio e agosto, ha affermato che “il collasso climatico è già iniziato”.
Tutti gli eventi estremi che si manifestano ormai quotidianamente qua e là, insieme agli inediti livelli di temperatura globale di questo periodo, fanno temere che sia in corso un vero e proprio “deragliamento” del clima planetario. Preoccupa in particolare la velocità con cui si perde criosfera intesa come ghiacciai polari, di montagna e dei permafrost e il contestuale innalzamento dei mari. Le tabelle previsionali vengono continuamente riviste e gli scenari potrebbero peggiorare irreversibilmente se non si interviene subito perlomeno a rallentare i trend in atto e l’incremento dei gas serra presenti nell’atmosfera.
In questo contesto così allarmante, c’è grande attesa per la prossima Conferenza delle Parti (COP 28 UN Climate Chance Conference) che si svolgerà a Dubai (Emirati Arabi) dal prossimo 30 novembre al 12 dicembre. L’Europa, avanguardia della lotta al cambiamento climatico, cercherà di sensibilizzare tutti i grandi player in gioco, come Stati Uniti, Cina e India allo stanziamento di nuove risorse ponendo nuovi obiettivi più ambiziosi. Gli equilibri in gioco sono sempre più precari in uno scenario di governance mondiale sempre più bipolare o multipolare. Quest’anno si prevede inoltre un approccio multidisciplinare al tema e il coinvolgimento di tutti gli attori della transizione energetica, inclusi ovviamente i padroni di casa che ben rappresentano il settore degli idrocarburi.
Aris Baraviera, Milano, 8 ottobre 2023.
La terminologia della sostenibilità e la preziosa eredità della cultura CSR
Il termine sviluppo sostenibile nasce nel 1987 dal Rapporto Brundtland (Report of the World Commission on Environment and Development) in cui ne è contenuta in primis la definizione. Con tale Rapporto per la prima volta viene evidenziata l’urgenza di risolvere i problemi delle risorse energetiche non rinnovabili, le criticità legate all’inquinamento e alle carenze globali dal punto di vista alimentare.
ll termine ESG (Enviromental, Social, Governance) viene usato invece a partire dal 2006, cioè dalla pubblicazione dei PRI (Principles for Responsible Investments) sviluppati da un gruppo di 20 persone designate dalle istituzioni di 12 differenti nazioni per conto dell’allora Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan. Tale gruppo si era confrontato in precedenza con 70 esperti provenienti dalle organizzazioni intergovernative e soprattutto da banche, assicurazioni, società di gestione del risparmio, fondi comuni e fondi pensione. Il termine ESG viene oggi usato prevalentemente nell’ambito degli investimenti e dei mercati finanziari.
Lo SRI (Social Responsible Investing) è una categoria di investimenti sociali responsabili ed etici che concettualmente nasce con i quaccheri americani nel Settecento. L’accezione più moderna fa riferimento agli investimenti etici americani degli anni Sessanta e Settanta, sviluppatosi anche in Italia a partire dagli anni Novanta. Con il termine SRI oggi si fa riferimento alle scelte di esclusione di alcuni settori controversi nella fase di screening degli investimenti (negative screening).
La CSR (Corporate Social Responsibility) che potremmo tradurre come responsabilità sociale dell’impresa nasce con la morale protestante e calvinista e si sviluppa soprattutto nei paesi anglosassoni. L’impresa in qualità di attività umana deve essere responsabile verso il prossimo e non produrre danni, perché chi persegue il profitto a scapito del benessere di altri non fa il volere di Dio.
Dopo le proteste sociali degli anni Sessanta e Settanta in diversi paesi occidentali, il comitato dei CEO (amministratori delegati) delle imprese statunitensi fondato trent’anni prima (Committee for Economic Development of The Conference Board) coltiva l’idea che sia necessario elaborare una modalità per ottenere il consenso della società civile per ridurre attriti e contrapposizioni. Le prime iniziative messe in campo sono quelle di comunicare la volontà di creare posti di lavoro, gestire le aziende in maniera onesta e di migliorare le condizioni dell’ambiente in cui vivono le persone.
La CSR nasce convenzionalmente con il filosofo e insegnante statunitense Robert Edward Freeman autore nel 1984 del primo saggio in cui vengono citati gli Stakeholder, cioè i portatori di interesse di una data azienda.
Nel 1977 però si era avuta una prima definizione di CSR dal professore statunitense Archie Carrol: “Insieme delle responsabilità e delle aspettative economiche, legali, etiche e discrezionali in capo alle aziende e come parti integranti delle strategie di impresa e non come aspetti incompatibili”.
La piramide di Carrol indica che le responsabilità dell’impresa sono quattro e hanno un preciso ordine gerarchico:
1) Responsabilità Economica;
2) Responsabilità Legale;
3) Responsabilità Etica;
4) Responsabilità Filantropica.
Il primo obiettivo dell’impresa, dunque, deve essere quello di fare soldi. Inoltre, deve agire in un contesto di regole rispettate per garantire la responsabilità sociale. Solo un’azienda che fa utili e rispetta le leggi può avere anche una responsabilità etica e può addirittura permettersi una responsabilità filantropica. E’ necessario pertanto che l’azienda abbia rispettato l’ordine gerarchico delle responsabilità. Ed è da questa linea di ragionamento che nasce l’idea che la CSR abbia una capacità predittiva rispetto all’andamento futuro di un’impresa: un’azienda CSR è prima di tutto un’azienda sana economicamente. La CSR si impone via via come elemento essenziale della gestione di impresa e non solo come semplice atteggiamento etico. La CSR si afferma non come strumento di marketing ma come visibilità aziendale. E questo già avviene prima della nascita del concetto di sviluppo sostenibile, riconducibile al Rapporto Brundtland del 1987.
I detrattori di questa teoria sono i liberisti della “scuola di Chicago” capitanata dal premio Nobel (1976) Milton Friedman. Essi sostengono che la CSR è una forma di beneficenza fatta con i soldi altrui e che mina le performance finanziarie di un’azienda. Inoltre, l’idea stessa di filantropia può far pensare che l’impresa abbia qualcosa da farsi perdonare e quindi diventi controproducente, oppure ancora che possa aver intrapreso un’azione di sponsorizzazione solo per farsi notare.
In Italia la reazione negativa nei confronti della CSR deriva dall’idea che per le imprese sia un ulteriore onere rispetto all’imposizione fiscale già piuttosto alta.
Nel 1998 la rivista americana “Fortune”, che si occupa di business, pubblica uno studio dal quale emerge chiaramente come le aziende a vocazione CSR siano anche le migliori in termini di performance economica. La teoria di Friedman inizia quindi ad apparire superata e altri studi da lì in poi supportano le tesi a lui avverse, cioè affermano che le aziende più virtuose in termini economici sono proprio quelle aderenti ai principi CSR.
La CSR si è fin da subito basata sugli stakeholder intesi come categoria delle parti in gioco o portatori di interessi secondo i soggetti coinvolti in qualsiasi maniera nell’azione dell’azienda. E’ importante definire chi sono per poter pianificare le strategie nei confronti di ognuno di loro e di avere una strategia complessiva di Corporate Social Responsibility. L’azienda si pone l’obiettivo di essere etica e responsabile su più fronti:
La responsabilità d’impresa non è univoca, ma differenziata e dinamica.
Nell’accezione più moderna potremmo definire i portatori di interesse tutti gli individui e le organizzazioni in qualsiasi modo coinvolti o influenzati dall’attività dell’impresa stessa.
Giancarlo Pallavicini, economista, saggista e professore universitario, nato a Desio (MB) nel 1931, è considerato uno dei padri italiani della responsabilità sociale d’impresa, anche se di fatto l’ha addirittura anticipata con le sue teorie già scritte a partire dagli anni Sessanta. Secondo Pallavicini, l’azienda che fa utili deve influenzare positivamente l’ambiente in cui opera e deve formulare un metodo di valutazione degli elementi intangibili rispetto ai risultati economici. I parametri da aggiungere riguardano una serie di variabili interne all’azienda come relazioni umane, gratificazione e fidelizzazione. La contabilità deve essere parallela e specifica e presentata a margine del bilancio.
L’emergere di questa cultura aziendale (CSR) appena descritta mette in luce una volontà di agire per il bene comune e porta le imprese a formalizzare obiettivi e motivazioni definendo nero su bianco anche le finalità. Ecco, quindi, che nascono i codici etici: un codice di etica del business e un codice di comportamento per le persone dell’organizzazione. Il primo per definire i valori perseguiti dall’azienda, il secondo per delineare il comportamento di dipendenti, fornitori e collaboratori. Oggi in Italia il codice etico ha una struttura su tre livelli: norme e principi, osservanza del codice e promozione delle norme. Nei paesi dove non ci sono le categorie professionali vengono redatti anche dei codici di esercizio professionale.
La critica ai codici etici sottolinea che spesso questi servono a coprire i “peccati” dell’azienda, che sono soft law e quindi non hanno una piena copertura giuridica, ma soprattutto che su di essi mancano gli strumenti di controllo sull’efficacia.
Oltre ai codici etici le imprese si sono dotate via via anche dei codici ISO. L’acronimo sta per International Standards Organization. Si tratta di una organizzazione che svolge funzioni consultive per l’ONU e l’UNESCO (Nazioni Unite per la scienza e la cultura). Esistono 30 tipologie di norme ISO che definiscono gli standard delle più svariate attività e prodotti e lo fanno sia per le caratteristiche dei materiali sia per la qualità dei servizi offerti e per la sicurezza. Un’azienda che decide di sottoporre i suoi prodotti o processi ad un codice ISO si affida a un ente indipendente di certificazione abilitato che esamina l’aderenza ai principi definiti. Le norme ISO sono comunque al pari dei codici etici delle soft law. In teoria se un’azienda certifica prodotti e processi ai codici ISO lo fa per certificare che si fa carico di una responsabilità sociale.
Per concludere si può certamente affermare che la CSR è uno dei criteri fondanti della cultura ESG e che a livello di responsabilità sociale delle imprese ne ha certamente costituito l’avanguardia.
Il termine moderno di sostenibilità discende dal significato di sviluppo sostenibile e trova applicazione in tanti ambiti. Per esempio, abbiamo la sostenibilità ambientale, energetica, alimentare, finanziaria etc.
E' un termine che indica che qualcosa può essere mantenuto a un certo livello nel tempo e che di fatto sta in piedi. Per cui si può affermare che le aziende sostenibili sono quelle che con maggiori probabilità sopravviveranno nel tempo e la sostenibilità in questo senso può essere spiegata con il proverbio milanese “SE LA VA LA GHA I GAMB” (se cammina vuol dire che ha le gambe).
Aris Baraviera, Milano, 15 settembre 2023.
Il Weekend dedicato alla promozione della salute e del benessere psicofisico: si terrà in tutto il mondo il 15-16-17 settembre.
Il World Wellness Weekend è celebrato in 147 paesi, dall'alba alle Fiji di venerdì 15 fino al tramonto alle Hawaii di domenica 17 settembre 2023. Un record di 6.000 location appaiono sulla World Wellness Map (www.wellmap.org) con un geo-localizzatore (in 18 lingue) per ispirare e consentire a milioni di persone di essere più attive più spesso con familiari, colleghi e compagni di benessere.
Importanza e limiti
Il rating letteralmente “classificazione” può essere definito come l’opinione espressa da un’organizzazione indipendente, detta Agenzia di rating, sulla capacità di un emittente o di un’emissione di far fronte ai propri impegni finanziari. Le società di rating definiscono il rating come l’opinione sulla capacità e la volontà di un soggetto economico di pagare puntualmente alla scadenza il debito contratto. I giudizi di rating nascono nel 1909, ma si affermano a partire dalla seconda metà del Novecento negli Stati Uniti e negli anni Ottanta in Europa e in Italia, specie con la diffusione dei Fondi di Investimento.
Dopo la crisi dei subprime americani e soprattutto con il fallimento della banca statunitense Lehman Brothers, i rating sono stati messi in discussione, ma grossomodo hanno poi retto il colpo e sono tutt’ora ancora utilizzati da tutta la finanza internazionale. Nel 2007 le agenzie di rating avevano sottostimato il rischio sistemico che colpì il settore dei mutui cartolarizzati americani, lo stesso che poi travolse Lehman Brothers l’anno successivo. In particolare le agenzie avevano sottostimato l’impatto della Leva finanziaria (cioè l’indebitamento della società) e della crisi di liquidità che si rivelarono fatali per le sorti della banca americana durante la crisi sistemica. Le agenzie avevano sopravvalutato invece sia la possibilità di un intervento governativo sia l’ipotesi di una trattativa per individuare un nuovo partner di Lehman, colloqui già avviati che avevano coinvolto le massime Autorità e i top manager delle grandi banche internazionali.
L’anno successivo al fallimento di Lehman Brothers, Stati Uniti ed Europa corsero ai ripari anche predisponendo una più stretta regolamentazione delle Agenzie di Rating. Con il Regolamento 1060/2009 si riconosceva la necessità di una normativa comune e si stabilivano per la prima volta i requisiti per operare come Agenzia di Rating sul territorio europeo.
Dopo la crisi del 2008 e con l’affermazione degli aspetti non finanziari nella valutazione aziendale, il ratign ESG si è imposto come uno dei nuovi “prodotti” della finanza sostenibile. Analogamente a quanto avviene per il credito, il rating ESG è espressione delle capacità di un’azienda di essere considerata dal punto di vista dei fattori della sostenibilità e del suo livello di rischio. Il rating ESG o rating di sostenibilità è quindi un giudizio sintetico che certifica anche la solidità di un titolo, emittente o fondo dal punto di vista delle performance sulla sostenibilità. L’antesignano è stato quello creato da un’agenzia tedesca che aveva lanciato il primo rating etnico-sociale alla metà degli anni Novanta.
I rating portano la promessa di un’integrazione “a portata di mano” della dimensione della sostenibilità. I rating aiutano gli investitori nell’individuazione dei rischi e delle opportunità ESG. Vengono utilizzati molto anche dai gestori di fondi, dai consulenti finanziari e dalle società che costruiscono gli indici di sostenibilità. Di solito questi giudizi vengono prodotti in maniera unilaterale. L’agenzia li comunica all’azienda valutata in maniera diretta oppure mediante i canali di comunicazione pubblica, cioè agenzie di stampa e giornali. Le valutazioni vengono fatte ad hoc (raccolta dati, screening, approfondimento, assegnazione) sulla singola azienda in base ai documenti disponibili. I punteggi vengono tradotti in tabelle di classificazione che risultano facilmente comprensibili al pari di quelle del merito creditizio, in quanto analogamente a quelle utilizzano il sistema di codifica contraddistinto da lettere dell’alfabeto.
Negli ultimi 20 anni, in un contesto competitivo di mercato, le agenzie hanno avuto interesse a proporre un loro framework proprietario di valutazione e analisi con specifiche caratteristiche e peculiarità. Già prima della pandemia si potevano contare infatti più di 600 framework proprietari di rating ESG a livello globale. Le società principali del settore sono: Morgan Stanley Capital International (MSCI), che ha un assetto proprietario detenuto da grandi investitori istituzionali; Vigeo Eiris del Gruppo Moody’s; Refinitiv del Blackstone Group di New York (in mano però ad un consorzio canadese e ad un fondo sovrano di Singapore), che detiene l’azionariato di maggioranza; la tedesca ISS Oekom; la Sustainalytics, le cui azioni sono invece detenute perlopiù dalla statunitense Morningstar.
Le metodologie utilizzate differiscono a seconda dei pesi attribuiti ai settori industriali, ai fattori ESG e alle strategie di sostenibilità. Gli indicatori generalmente vengono suddivisi in gruppi tematici (Pilastri/Temi/Key issue). Considerando gli oltre 600 differenti framework, le esigenze di efficienza nell’erogazione del servizio di analisi hanno necessariamente comportato una standardizzazione nelle metodologie che ciascun provider adotta. Le correlazioni tra una metrica e l’altra risultano però piuttosto basse data la mancanza di uniformità metodologica tra provider. Solo gli aspetti ambientali ad oggi risultano misurati con una oggettività che inizia perlomeno ad intravedersi. Molto diversa quindi è la situazione sui temi sociali e soprattutto di governance. Infatti numerosi studi hanno evidenziato come spesso i rating attribuiti alla medesima organizzazione da diverse agenzie presentino risultati ancora molto diversi, persino opposti talvolta. Secondo Bloomberg, inoltre, la metà degli upgrade (variazione positiva di giudizio) degli ultimi anni è stata fatta sulla base di variazioni alle metodologie e di ponderazioni dei diversi fattori e non invece per migliorie apportate alle singole società oggetto di analisi.
La critica maggiore che viene rivolta a diverse tipologie di rating è che queste contengono una nozione di materialità puramente finanziaria, cioè non prendono in considerazione gli impatti sull’ambiente o sulle persone, ma solamente le possibili ricadute sulle performance finanziarie dell’impresa. La maggior parte delle “pagelle dei rating” non rispecchiano in sostanza i virtuosismi verso l’ambiente e le persone, ma solo la capacità di gestire le ricadute dei fattori ESG in termini di possibili costi inattesi e opportunità che possono essere capitalizzate dall’azienda. Esiste il rischio concreto quindi che rating molto positivi siano scollegati da quanto effettivamente un’azienda contribuisca allo sviluppo sostenibile. Inoltre le società non vengono misurate secondo standard universali, ma nel confronto con i competitors, ovvero le industrie del medesimo settore. Se ad esempio un settore è mediocre dal punto di vista della sostenibilità, una società leggermente meno mediocre delle altre potrebbe apparire addirittura come virtuosa o eccellente.
Le agenzie di rating indagano quindi perlopiù sui rischi e sulle opportunità di un settore e sui rischi e le opportunità della singola azienda, di come la stessa gestisce gli aspetti ESG. Anche l’immagine complessiva di una data organizzazione rispetto ai suoi industry peer ha una certa rilevanza. E pure le controversie giudiziarie che l’azienda è tenuta ad affrontare in ambito ESG sono sempre più importanti.
Al di là delle problematiche di natura tecnica su affidabilità e coerenza dei giudizi, esiste un’ulteriore questione legata al modello di business delle agenzie di rating. La tipica agenzia, infatti, oltre a generare il rating, offre dei servizi di consulenza finalizzati a realizzare le condizioni per migliorare la valutazione stessa, ponendo non pochi grattacapi in termini di conflitto di interesse e indipendenza del giudizio. Una preoccupazione questa rilevata anche dall’ESMA (“la Consob europea”) che già da qualche anno ha chiesto più regolamentazione in questo settore.
Aris Baraviera, Milano, 15 agosto 2023.
Come sta cambiando il business per le aziende
Nel mondo odierno per valutare un’impresa o un investimento non basta più guardare ai soli dati finanziari. Le decisioni di investimento e le valutazioni sui piani aziendali non si basano più esclusivamente sui parametri finanziari, ma tengono conto dei fattori ESG, quindi di elementi extra finanziari che giocano un ruolo importante nel determinare la sostenibilità di un investimento nel medio lungo periodo. L’acronimo ESG (Environmental, Social, Governance) indica i fattori ambientali, sociali e di governance che riguardano il mondo che ci circonda: per esempio le emissioni di gas serra e l’esaurimento delle risorse naturali, le condizioni di lavoro e i diritti umani, le complesse strutture di regole con le quali un’azienda viene guidata.
Contrariamente alle teorie affermatesi alla fine del secolo scorso che puntavano alla massimizzazione dei profitti di breve periodo degli azionisti, si assiste oggi all’ascesa di un modello di impresa che implica una nozione più ampia del valore aziendale. Al fine di misurare questo valore sociale le aziende da qualche anno hanno iniziato ad includere nella rendicontazione contabile anche le performance ESG accanto a quelle economiche. In verità negli anni Novanta del Novecento si era già manifestata una prima avanguardia degli investimenti sociali, responsabili ed etici legata a scelte di esclusione nella fase di screening degli investimenti (negative screening). Tipici settori di esclusione erano quelli del tabacco, del gioco d’azzardo, delle armi, della pornografia e più di recente dell’estrazione di combustibili fossili. Questi investimenti sono chiamati Socially Responsible Investing (SRI).
La Banca Popolare Etica nasce nel 1998 al culmine di questa prima ondata di responsabilità sociale delle imprese.
A partire dal 2010 le questioni di natura non finanziaria hanno avuto un nuovo e importante impulso per le necessità di ricostruire la fiducia degli investitori verso i mercati finanziari a seguito della crisi finanziaria del 2008. Se da un lato l’economia globale è gradualmente ripartita, dall’altra i problemi sociali e ambientali sono cresciuti rapidamente aumentando l’urgenza di dover considerare rapidamente in modo quantitativo dati di natura non finanziaria nell’analisi delle società. Sotto l’impulso dei principi degli Investimenti sostenibili Onu (PRI), prendono piede i primi fattori e criteri ESG; prima con l’idea che i bisogni sociali o ambientali richiedano l’accettazione di ritorni finanziari inferiori (Impact Investing- Impact First), poi con la convinzione che esiste un’opportunità di crescita commerciale con ritorni di mercato superiori (Impact Investing- Finance First).
Se l’investimento etico e responsabile (SRI) era basato sull’esclusione di società attive nei settori controversi (citati sopra) l’investimento ESG considera invece un insieme di fattori più ampio utilizzando un processo denominato “positive screening” che non esclude a priori determinati settori d’investimento, ma analizza nel dettaglio rischi e opportunità e opera una selezione basata sulle performance ESG (“best in class”).
Gli ultimi anni hanno mostrato con grandissima evidenza le sfide epocali che persone e aziende possono trovarsi ad affrontare. La pandemia ha rivoluzionato il modo di lavorare e ha accelerato la transizione digitale. L’aumento dei prezzi dell’energia e gli eventi climatici estremi hanno mostrato l’urgenza della transizione ecologica. Lo scoppio del conflitto Russia-Ucraina ha evidenziato ulteriormente l’importanza dei temi geopolitici e della sicurezza energetica.
La relazione tra un’impresa, i suoi dipendenti e la collettività è in fase di rielaborazione e in questo contesto i fattori ESG avranno sempre più un peso rilevante. La transizione verso un’economia circolare e a basse emissioni carboniche è la nuova sfida del secolo in corso. Ed è fondamentale agire con urgenza per mitigare gli impatti delle attività umane sull’ambiente e sul clima.
Troppo spesso i rischi presentati nei report di sostenibilità delle aziende non sembrano ancora coerenti con i rischi ESG ai quali le stesse sono esposte. La normativa già ipertrofica sulla materia è però lacunosa in alcuni ambiti ed è infatti ancora in continua evoluzione. Le difficoltà maggiori che le aziende italiane ed europee palesano sono quelle di giustificare in termini monetari tali rischi specie nel medio e lungo periodo. Nelle imprese c’è ancora poco dialogo tra le persone che seguono i rischi classici e chi si occupa delle tematiche ESG. I rischi sono visti ancora separatamente rispetto ai rischi classici e “pesano” meno degli altri. Occorre aumentare ancora di più la consapevolezza del Consiglio di amministrazione delle imprese, riesaminare i processi che creano valore aziendale, ridefinire i rischi cercando di cogliere come tali rischi minaccino la realizzazione delle strategie di business. Occorre definire una precisa risposta dell’azienda al variare dei rischi, analizzando i relativi costi e benefici. Bisogna migliorare la disclosure, le comunicazioni al management e agli stakeholders, cioè a tutti i soggetti che hanno un ruolo attivo con l’azienda e che concorrono al suo successo.
Diverse aziende stanno integrando l’analisi dei rischi connessi al cambiamento climatico nell’ambito del risk management. In questo ambito si distinguono i “rischi fisici” e i “rischi di transizione”. Il “rischio fisico” comprende eventuali danni sulla produttività diretta e indiretta da eventi metereologici estremi e da mutamenti del clima. Il “rischio di transizione” tiene conto invece di eventuali perdite finanziarie derivanti dall’adeguamento (o mancato adeguamento) del business alla sostenibilità. Rivestono sempre più importanza nelle definizioni della mappatura dei rischi gli “stranded asset” che consistono in attività economiche che devono subire svalutazioni o essere convertite in passività a causa del cambiamento relativo alla transizione energetica.
Lo sviluppo sostenibile è “lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Il tema non è più una questione di etica ma si pone come elemento competitivo del mercato. Fare impresa sta diventando sempre più … una bella impresa.
Aris Baraviera, Milano, 15 luglio 2023.
La martellante comunicazione ESG: l’ultima moda o l’unica salvezza?
La retorica più o meno accattivante sulla sostenibilità ambientale, sociale e di governance sta facendo proseliti di giorno in giorno e ogni campagna pubblicitaria ne richiama i concetti principali. Capita sempre più di frequente poi di ascoltare amministratori e manager che pontificano su ambiente, diritti umani e parità di genere. Alcuni di loro fino a qualche anno fa erano orientati cinicamente al solo risultato economico, ora invece sembrano essere stati folgorati sulla via di Damasco e tengono conferenze e webinar sull’importanza del fattore umano nelle aziende, sui comportamenti socialmente responsabili, sull’economia circolare per la tutela dell’ambiente e sulla resilienza al cambiamento climatico. Anche la lotta alla fame nel mondo si è fatta largo tra gli obiettivi delle aziende da loro dirette, mentre fino a qualche anno fa questo tema sembrava confinato esclusivamente alle utopie delle aspiranti Miss Italia di Salsomaggiore Terme.
Una parte dell’opinione pubblica è ormai convinta che la sostenibilità sarà un tema sempre più centrale nella competitività economica e nell’innovazione, e che addirittura sarà fondamentale per la sopravvivenza della specie umana. Un’altra parte rimane invece ancora scettica e ritiene che l’enfasi sulla sostenibilità sia una moda come tante altre per farcire lo storytelling aziendale. Il tema è comunque caldissimo e attualissimo.
Eppure il concetto di sviluppo sostenibile nasceva nel lontano 1987 grazie al lavoro della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, istituita nel 1983 dal segretario generale dell’Onu Javier Pérez de Cuéllar e presieduta dalla prima ministra norvegese Brundtland. Di sviluppo sostenibile si avevano già avute tracce nel 1972 alla Conferenza di Stoccolma delle Nazioni Unite sull’ambiente umano in cui erano usciti i primi modelli previsionali che leggevano i dati demografici ed economici con un forte orientamento apocalittico. Un primo importante passo in avanti veniva rappresentato dall’istituzione dell’Agenda 21 del 1992, che definiva le informazioni statistiche propedeutiche all’individuazione degli obiettivi dello sviluppo sostenibile.
Il dibattito sul cambiamento climatico era nato addirittura nel 1979, con la Convenzione di Ginevra sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a grande distanza (UNECE). La tappa più importante però è sicuramente stata il Summit della Terra svoltosi a Rio de Janeiro nel 1992, la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente, che aveva istituito la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). La convenzione era entrata in vigore nel 1994 e la prima Conferenza delle parti, cioè degli Stati firmatari, si era tenuta a Berlino nel 1995 (COP1). L’ultima, cioè la più recente, si è svolta a Sharm El-Sheikh nel 2022 (COP27), dove si sono avute anche la Conferenza delle Parti aderenti al Protocollo di Kyoto (CMP17) e la sessione della Conferenza delle Parti aderenti all’Accordo di Parigi (CMA4).
Con i sei Principi ONU del 2006 (UN PRI) si affermava il concetto di finanza sostenibile, cioè di quella finanza che deve convogliare le risorse necessarie alla transizione energetica ed economica. Di finanza sostenibile se ne avevano tracce però anche prima, non a caso il Forum della Finanza sostenibile di Milano nasceva nel 2001 (il primo Green Bond arrivava invece del 2007). Nel 2012 arrivavano i quattro Principi ONU per l’assicurazione sostenibile (UN PSI). Nel 2014 era la volta della importante normativa europea, la Direttiva 95, la cosiddetta “NFRD”, che introduceva nuovi standard minimi di reporting in materia ambientale e sociale.
La vera svolta che cambia lo scenario strategico delle imprese e attiva una vera e propria rivoluzione arrivava nel 2015 con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite siglata a New York. Questa prevede 17 obiettivi e 169 sotto-obiettivi. Qualche mese dopo, sempre nel 2015, veniva siglato poi l’Accordo di Parigi per il cambiamento climatico dell’UNFCCC, firmato alla COP21 da 197 Paesi, che rilanciava l’impegno globale dopo le palesi difficoltà manifestate dal Protocollo di Kyoto, siglato nel 1997 (COP3), ed entrato in vigore già depotenziato dopo otto anni, nel 2005.
Con le Nazioni Onu che fissano dunque i principi e gli obiettivi di un nuovo mondo più sostenibile, l’Unione Europea si candida ad essere da esempio per l’intero globo e lancia così l’Action Plan nel 2018 (e nel 2021) che fissa i 10 punti della finanza sostenibile e promuove l’economia circolare. Nell’ambito del Piano si inseriscono sia nuove iniziative normative, sia la revisione della normativa vigente, al fine di includere tutti gli aspetti connessi alla finanza sostenibile nella prestazione dei servizi finanziari: il Regolamento SFDR (Sustainable Finance Disclosure Regulation) nel 2019, il Regolamento Tassonomia nel 2020 e il Regolamento sulle preferenze di sostenibilità (2021/1253) nel 2021, che modifica la MiFID.
Nel 2019 arriva il Green Deal della Commissione Europea che fissa al 2050 la neutralità climatica. Il Next Generation EU del 2020 si propone di finanziare il percorso di riconversione energetica ed economica dei paesi europei dopo la pandemia da coronavirus 2019.
Nel 2019 escono anche i sei Principi ONU per l’attività bancaria responsabile (Prb UNEP). Si inseriscono nella cornice delineata dagli Accordi di Parigi e dall’Agenda 2030.
L’Europa continua poi a legiferare sulla materia e vengono anche approvati il Regolamento Delegato 2021/2139, il Regolamento UE 2021/1119, il Regolamento Delegato 2021/2178, il Regolamento Delegato 2022/1214 e la importante Direttiva 2022/2464 (CSRD) che gradualmente apporterà rilevanti modifiche alla “NFRD” e in generale alle informazioni sulla sostenibilità delle imprese.
Appare chiaro dunque, con tutto quello che è stato e che sarà messo in campo, che la questione della sostenibilità non è certo una moda passeggera. Al contrario sembra essere diventata una rivoluzione copernicana destinata a stravolgere le regole del mercato, la cultura e gli stili di vita di tutti gli abitanti del pianeta, chi prima e chi dopo. In un contesto quindi in continua e forte evoluzione normativa, il trend di crescita dell’ESG è ormai consolidato e continua ad accelerare, con numeri rilevanti sia in Europa che in Italia, dove ad esempio l’offerta di fondi di investimento green (art 8/9 SFDR) vale oltre il 35% del totale mercato e il 70% dei nuovi fondi lanciati. Anche gli investitori sono preoccupati per i cambiamenti climatici in corso ed esigono maggiore attenzione anche all’impatto sociale delle aziende e maggior aderenza tra le scelte finanziarie e i loro valori.
Purtroppo non c’è tempo da perdere. Infatti nel novembre del 2019 dopo dieci anni di osservazioni e studi la rivista “Bioscience” ha pubblicato un appello, il “World Scientists’ Warning of a Climate Emergency” firmato da 11.258 scienziati di 153 differenti nazioni. I risultati dello studio a cui si fa riferimento nelle pagine del testo provano che l’effetto dell’uomo è ormai evidente sull’incremento della CO2: il cambiamento in corso non è un normale trend delle temperature, perché la velocità del cambiamento non ha precedenti nella storia della Terra. Il segretario dell’Onu Antonio Guterres più volte ha ripetuto che “L’atteggiamento umano deve cambiare perché sono possibili imminenti forti cambiamenti climatici ed estinzioni di massa”. Questi appelli spesso cadono nel vuoto e solo il quotidiano inglese The Guardian li ripropone costantemente. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente (EEA), dal 1980 al 2020 in Europa si contano 487 miliardi di euro di danni da eventi climatici estremi, di cui 90 miliardi in Italia. Nei prossimi anni le previsioni danno un aumento esponenziale di queste cifre, com’ è facilmente intuibile dopo un evento come la recente alluvione avvenuta in Emilia Romagna.
Ben venga dunque la leggerezza che caratterizza quelle “conversioni” un po’ tardive e apparentemente opportunistiche alla sostenibilità da parte di manager e amministratori, che fino a qualche anno fa non avevano mai pensato al pianeta e al sociale, e che ora si riscoprono improvvisamente attenti e sensibili al contesto in cui vivono. Il loro linguaggio un po’ paternalistico e stucchevole risulta più sopportabile se lo si considera un passaggio obbligato e utile alla causa. L’importante però è appurare che la svolta non sia solo un ecologismo di facciata (greenwashing), ma che sia vera e si consolidi nel lungo periodo, anche se guidata dalla convenienza e dal business. Appare chiaro che le “conversioni” non siano dovute a puro altruismo e all’amore per il bene comune, ma siano soprattutto il frutto della legittima convenienza economica. La stessa che ha trainato le rivoluzioni industriali, informatica e digitale e che ora deve servire alla causa della sostenibilità del pianeta per la sopravvivenza delle future generazioni. La sostenibilità deve quindi necessariamente diventare conveniente per imprese e mercato. Per il momento non sembrano esserci strade alternative.
Aris Baraviera, Milano, 15 giugno 2023.
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Gli obiettivi dell’Agenda 2030: 1) sconfiggere la povertà 2) sconfiggere la fame
“E pensare che domani sarà sempre meglio …” è la strofa di “Vivere”, una vecchia canzone di Vasco Rossi. La canzone esce per puro caso qualche mese dopo il famoso Summit della Terra del 1992 di Rio de Janeiro (Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo) che, oltre ad istituire la convenzione quadro sui cambiamenti climatici, fa nascere “l’Agenda 21” con la quale vengono definite le informazioni statistiche propedeutiche all’individuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile e che mette a fuoco le prime crepe della cosiddetta “green revolution” che si era diffusa nel settore agricolo in buona parte del mondo a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
A partire dagli anni Cinquanta del Novecento, l’obiettivo individuato da alcuni organismi internazionali è sempre stato quello di combattere la fame ovunque, mettendo a punto un nuovo modello di produzione, trasformazione e consumo. Si è affermato così un modello di innovazione completamente diverso rispetto ai precedenti. Si è basato su una forte specializzazione ed è stato focalizzato sull’aumento della produzione e della produttività di poche colture agrarie, perlopiù cerealicole. Innovare il sistema agroalimentare ha comportato un cambiamento del rapporto con la natura, le tradizioni, i valori. Il modello innovativo di tale rivoluzione ha visto quindi una super specializzazione accompagnata dall’evoluzione della tecnologia che ha portato rapidità ed efficacia: Il modello è stato sempre focalizzato sull’obiettivo principale, tanto da non saper vedere e prevedere i cosiddetti effetti secondari, spesso negativi, che sono emersi poi col passare degli anni e si sono rivelati nitidamente solo nel corso degli ultimi decenni. La standardizzazione tecnologica, indirizzata anche a raggiungere livelli sempre più elevati di sicurezza e sanità alimentare e a massimizzare i ricavi in un contesto sempre più a trazione capitalista, ha determinato una crescente specializzazione dei territori di produzione agricola che, via via, ha limitato gli indirizzi e gli ordinamenti produttivi agricoli e ha creato una marcata omogeneità degli agri mettendo a rischio la biodiversità e l’agro-biodiversità. In molte parti del mondo, soprattutto quelle più ricche, il modello di agricoltura ha affondato le proprie radici nelle riserve di energia fossile: dal confezionamento e il packaging passando per la conservazione e la distribuzione fino ad arrivare al consumo. Il tutto contribuendo così ad elevare gli alti livelli di concentrazione di anidride carbonica già presenti nell’atmosfera.
La crescente domanda di carne, che ha trainato e traina sempre più il settore produttivo zootecnico, ha fatto crescere esponenzialmente lo stesso settore negli ultimi decenni con modelli estremamente intensivi e concentrati nei territori. C’è stato anche un forte aumento di consumo di cereali per alimentare gli animali allevati, gran parte dei quali prima della rivoluzione era alimentata con erba e fieno. Il tutto a discapito delle foreste che hanno perso terreno a vantaggio appunto dei pascoli e soprattutto delle coltivazioni di mangimi.
La domanda di carne è quindi in aumento in tutto il mondo. Secondo la Fao oggi ci sono 1,5 miliardi di bovini, più di 1 miliardo di suini e 1,3 di ovini-caprini, più di 30 miliardi tra capi avicoli e altre specie animali allevate in condizioni intensive. Bovini polli e suini insieme totalizzano l’88% della produzione di carne, i bovini da soli producono l’81% del latte. Secondo il WWF i mammiferi presenti sulla Terra sono ormai riconducibili perlopiù alle categorie del bestiame da allevamento ed agli esseri umani. I mammiferi selvatici rimangono rilegati oramai ad una percentuale che si attesta a circa il 4% del totale. Le condizioni di intensificazione progressiva hanno permesso aumenti di produzione di beni alimentari e crescita di ricchezze. D’ altra parte determinano un’elevata densità di animali, accumuli eccessivi di azoto, fosforo, potassio, microbi fecali, antibiotici che inquinano le acque superficiali e sotto-superficiali. L’aumento degli antibiotici è dovuto alla necessità di proteggere e migliorare la salute degli animali e stimolarne un rapido accrescimento e massimizzazione dei profitti. Purtroppo però gli escrementi con antibiotici contaminano terreni e acque. I reflui animali provenienti da questo tipo di allevamento e utilizzati per fertilizzare i terreni coltivati veicolano batteri resistenti e antibiotici e quindi rappresentano un serio rischio per la salute dell’uomo. Inoltre il modello di agricoltura intensiva industriale, che ha fatto crescere le produzioni di alcune culture, sembra oggi essere giunto all’apice della propria parabola.
Nonostante i modelli intensivi brevemente descritti, circa 800 milioni di persone nel mondo affrontano quotidianamente il problema della fame e se si aggiungono coloro che si trovano in condizioni di malnutrizione le cifre aumentano. I casi di persone sofferenti di “fame nascosta” raggiungono e superano la cifra di 2 miliardi di persone, localizzati soprattutto in Africa e nella parte orientale del globo e occorre aggiungere che la situazione nell’Africa subsahariana sta peggiorando rapidamente dal 2019. Esistono inoltre diverse facce della malnutrizione all’interno della stessa area geografica, della stessa città e il 39% della popolazione adulta mondiale (specie in occidente) è in sovrappeso, con una percentuale di obesi che si può stimare attorno al 13% della popolazione complessiva.
E’ in questo contesto che l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite si pone come obiettivo numero 1 di “Sconfiggere la povertà”, goal che è declinato in sette target, gli ultimi due dei quali riferiti agli strumenti di attuazione. Di seguito vengono riportati i punti semplificati:
L’obiettivo numero 2 dell’Agenda 2030 è “Sconfiggere la fame”, una lotta che deve essere intrapresa però senza inquinare il pianeta. L’obiettivo viene declinato in otto target, gli ultimi tre dei quali sono riferiti agli strumenti di attuazione. Di seguito vengono riportati i punti semplificati:
L’Agenda 2030 parte dal presupposto che un aumento della produzione agricola sarà richiesto nei prossimi anni per rispondere alle esigenze di una popolazione che è prevista in crescita fino al 2050, quando dovrebbe toccare i 9,7 miliardi di persone (nel 2022 sono stati toccati gli 8 miliardi di abitanti).
La Fao stima che la produzione mondiale di cibo dovrà aumentare del 50%. Questo considerando anche quei fattori sociali, umani e ambientali che sono stati disattesi in passato.
Quasi ovunque la crescita di un Paese è stata misurata fino a pochi anni fa solo in termini di Prodotto interno lordo (PIL), valore monetario di beni e servizi prodotti in un anno. Questo indicatore considera la crescita solo in termini economici, senza tener contro del capitale naturale perso nel corso di questo processo di crescita, e rappresenta un valore medio, senza indicare le differenze tra i più ricchi e i più poveri. Per fortuna altri indicatori vengono oggi presi in considerazione per le valutazioni di sviluppo sostenibile: lo Human Development Index e l’Impronta Ecologica, che sono indici che misurano la qualità della vita. Altri da poco utilizzati, come l’Enviromental Performance Index e Il Bes (Benessere Equo Sostenibile) misurano il benessere non solo dell’individuo, ma anche della comunità.
La Fao stima che insistendo con il modello attuale di produzione e consumo, pur supponendo sia capace di un incremento produttivo del 50%, non ci saranno miglioramenti significativi sul fronte della sotto- nutrizione e malnutrizione. In sintesi, ciò che emerge è che il solo aumento delle produzioni non sarà per nulla sufficiente a raggiungere una situazione di sicurezza alimentare nelle sue quattro importanti dimensioni di disponibilità, accesso, fruizione, stabilità. La fame e la malnutrizione non sembrano legate alla produzione di alimenti, ma principalmente all’iniqua distribuzione dei diritti, che causa l’iniquo accesso al cibo, alle risorse necessarie per produrlo, ai mercati e ai servizi. Non si potrà quindi avere uno sviluppo sostenibile senza un cambiamento delle attuali e più diffuse diete.
Nei Paesi più poveri, dove le diete non sono adeguate, lo stato di salute delle persone trarrebbe vantaggi da diete più ricche di acidi grassi essenziali, minerali, vitamine e proteine di diversa origine, incluse sia quelle vegetali sia quelle animali. Al contrario le diete dei Paesi ricchi tendono a essere sbilanciate e sempre più associate alla comparsa di malattie come diabete di tipo 2, malattie dell’apparato cardiocircolatorio e il cancro.
Ci attendono nuove sfide, dopo che la pandemia di Covid 19 ci ha dimostrato come siano stretti i legami tra la nostra salute e quella degli ecosistemi, la qualità delle filiere agroalimentari, gli stili di vita e di consumo, e i limiti del pianeta.
Fino a pochi anni fa, la fame del mondo e la povertà sembravano temi destinati ad essere citati solo durante le sfilate di MISS ITALIA, oggi sembrano diventati sfide epocali a cui nessuno può e dovrebbe sottrarsi nel rispetto della sostenibilità dell’intero pianeta e della vita dei suoi abitanti.
“Domani sarà tardi per rimpiangere la realtà. E’ meglio viverla E’ meglio viverla” (“Gabri”, Vasco Rossi, 1993).
Aris Baraviera, Milano, 15 aprile 2023.
Origini del concetto di sostenibilità e nascita dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite
Come molti già sanno, il 25 settembre del 2015, a New York, è stato adottato un documento finale nel Summit delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile sottoscritto da 193 Stati. Si tratta della famosa Agenda 2030 intitolata “Trasformare il nostro mondo”, che è un insieme di linee guida e di azioni per le persone, il pianeta e la prosperità che persegue il rafforzamento della pace universale e si pone obiettivi come sradicare la povertà in tutte le sue forme e dimensioni e creare un modello di crescita economica che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri. Agenda è una parola latina, la declinazione del verbo “agere” e significa “da fare”. L’ indirizzo dell’Agenda è infatti quello di apportare miglioramenti in tre campi: economico, sociale e ambientale, e in primis far crescere l’attenzione alla salute delle persone e la cura del pianeta. Il piano d’azione per lo sviluppo sostenibile non promuove solo la conservazione delle risorse, ma vuole sollecitare attività produttive compatibili con gli usi futuri. Per la prima volta i governi si pongono obiettivi comuni così ambiziosi e importanti che tengono conto delle realtà specifiche di ogni territorio e del relativo livello di sviluppo.
Nell’Agenda ci sono 17 obiettivi e ognuno di essi suona come un campanello d’allarme per tutti i Paesi, nessuno escluso. Sono obiettivi comuni nel senso che riguardano appunto tutti i Paesi e tutti gli individui del mondo. Le caratteristiche fondanti del progetto di sviluppo sostenibile sono la sua universalità, la sua indivisibilità e la sua multidisciplinarietà. I 17 obiettivi (Sustainable Development Goals -SDGs) sono articolari in 169 targets in cui si sancisce in modo chiaro il nesso tra condizioni di povertà e crisi ambientale, tra le attività umane e i cambiamenti climatici, tra il depauperamento delle risorse naturali e lo sviluppo economico.
Già negli anni Cinquanta del secolo scorso cominciarono a farsi sentire le voci dei primi critici del progresso. A suscitare critiche e preoccupazioni furono soprattutto i pericoli dell’energia atomica e i rischi per la salute dell’uomo derivanti dalla chimica per l’ambiente. Oggi, purtroppo, con la guerra in atto in Ucraina dalle preoccupazioni sull’energia atomica siamo passati al timore dell’uso di armi atomiche, peraltro già paventato in passato nel corso della “guerra fredda”, mentre altre paure completamente nuove incombono sull’umanità, come quelle rappresentate dall’interazione sempre più presente tra tecnologia e scienze umane, tra macchina e cervello.
La crescente consapevolezza del fatto che il sistema che sostiene la nostra vita ecologica globale è in pericolo ci costringe a capire che le scelte fatte su ambiti nazionali ristretti, con orizzonte di breve termine, possono produrre nel lungo termine disastrosi risultati globali. Appare ormai evidente come i modelli economici ed ecologici tradizionali non sono in grado di affrontare appieno i problemi ecologici globali. A questa nuova consapevolezza vanno aggiunti l’aumento demografico e l’esplosione delle attività economiche che hanno causato stress ambientali in tutti i sistemi socio-economici e messo in crisi il modello di sviluppo. La popolazione mondiale ha raggiunto nel 2022 gli 8 miliardi di individui e continua ad aumentare. Le stime ONU prevedono che passerà ad 8,5 miliardi nel 2030, a 9,7 miliardi nel 2050, a 10,9 miliardi nel 2100. Nel corso dei decenni passati, si è fatta strada la preoccupazione che l’aumento della crescita economica atta a soddisfare la popolazione mondiale in continua crescita non fosse più sostenibile per l’ambiente e in particolare per i problemi come l’effetto serra, il riscaldamento globale, la perdita di biodiversità, la produzione di rifiuti e l’esaurimento delle fonti naturali. Dalle preoccupazioni si è passati purtroppo alle certezze. Negli eco-sistemi infatti le popolazioni, una volta raggiunta la massima capacità di carico, rallentano la crescita e si stabilizzano in una condizione di equilibrio.
Nel 1987 grazie al lavoro della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, istituita nel 1983 dal segretario generale dell’Onu Javier Pérez de Cuéllar e presieduta dalla prima ministra norvegese Brundtland si coniava il concetto di “sviluppo sostenibile”. Il Rapporto Brundtland metteva chiaramente in luce che il progressivo deterioramento dell’ambiente è diretta conseguenza di uno sviluppo economico incontrollato e che determinanti danni all’ambiente rischiano di essere tramandati alle generazioni future. L’idea di sviluppo sostenibile veniva ancor più da lontano considerando che se ne trovano tracce importanti fra i lavori della Conferenza di Stoccolma delle Nazioni Unite dell’inizio degli anni Settanta (1972), costruita su modelli previsionali che leggevano i dati demografici ed economici con un forte orientamento apocalittico di stampo neo-malthusiano e che infiammavano e radicalizzavano le posizioni di allora. Va ricordato che Thomas Robert Malthus è stato un economista e filosofo vissuto tra il 1766 e il 1834 e che con le sue teorie aveva evidenziato come le risorse naturali tendano ad incrementarsi con progressione numerica, al contrario dell’aumento della popolazione che invece segue una progressione geometrica con aumento esponenziale sicuramente maggiore.
Un’altra tappa importante fu il Summit della Terra, la Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro del 1992, che oltre a istituire le COP per il cambiamento climatico --- come abbiamo riportato nei precedenti articoli pubblicati in questa stessa rubrica -- istituì l’Agenda 21 che definiva le informazioni statistiche propedeutiche all’individuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Con l’Agenda 21 ci furono miglioramenti nella raccolta e nel trattamento dei dati, l’accrescimento dei metodi per la valutazione ed analisi, la creazione di un quadro di riferimento statistico condiviso e la definizione di standard e metodi di cooperazione. Le Conferenza di Johannesburg del 2002 (Earth Summit Rio+10) e la Conferenza di Rio del 2012 (Earth Summit Rio+20) furono invece occasioni per constatare il non raggiungimento degli obiettivi che ci si era posti in precedenza e la necessità di istituire qualcosa di più importante e vincolante.
Come abbiamo visto, con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, sottoscritta da 193 Stati il 25 settembre 2015, viene a crearsi un nuovo paradigma e soprattutto un nuovo modo di agire. Pochi mesi dopo, viene siglato l’Accordo di Parigi (dicembre 2015) sul cambiamento climatico, sottoscritto da 196 Stati alla Conferenza delle Parti dell’UNFCCC, e che di fatto porta nuove regole e nuovo vigore dopo il Protocollo di Kyoto siglato anni prima. E’ interessante notare come anche l’enciclica papale “Laudato sì” (maggio 2015) sia arrivata nel medesimo anno di questi due accordi epocali. L’enciclica, che porta l’originale definizione di “ecologia integrale”, per la prima volta descrive le interazioni tra sistemi naturali e sistemi sociali e pone l'ambiente in una prospettiva universalistica. Enuncia in sostanza il principio dell'ambiente come bene comune, da difendere in una visione anche temporale di giustizia per le generazioni future.
Dal 2015 siamo praticamente entrati nell’era della “sostenibilità” e lo percepiamo bene dai ripetuti richiami al green provenienti dalla pubblicità, dal martellamento incessante delle tv che ci ricordano l’importanza del benessere, dell’energia pulita, dell’economia circolare, del futuro del pianeta. Peccato solo che per combattere le ingiustizie, porre fine alla fame nel mondo, porre rimedio al cambiamento climatico e difendere tutti gli altri obiettivi che ci si è posti, ci vorrebbe una guida del mondo autorevole, democratica e plurale, composta da organismi sovrannazionali forti e credibili. Solo così potremmo davvero camminare sopra le nuvole sognando e tenendoci per mano, realizzando così la costruzione di un mondo migliore. E invece ci troviamo a fare i conti con scenari globali sempre più precari e segnati da guerre, con istituzioni internazionali marginalizzate da nuovi e vecchi imperialismi.
Aris Baraviera, Milano, 15 marzo 2023.
Nuove COP e nuove speranze nel dopo Parigi 2015
La Vie en Rose è una famosa canzone del 1945 di Edith Piaf, diventata un’espressione idiomatica francese (“voir la vie en rose”) tutt’ora molto frequente nel parlare comune. Il suo esatto equivalente in italiano è “vedere la vita rosa” nel senso di essere fiduciosi e ottimisti. Ed è proprio grazie all’Accordo di Parigi che tutti noi possiamo ancora permetterci di vedere un futuro rosa, per noi e per le generazioni future, pur sapendo che non c’è tempo da perdere nel ridurre le emissioni di gas serra prima che il cambiamento climatico diventi davvero irreversibile.
La COP21 di Parigi ha rappresentato indubbiamente un buon nuovo inizio, come sostenuto dalle principali reti globali di associazioni e organizzazioni attive nella questione climatica: per la prima volta tutti i paesi nella stessa piattaforma con le regole comuni, in uno sforzo congiunto seppur tra rispettivi interessi e difficoltà procedurali.
A partire dalla Conferenza di Rio del 1992, e soprattutto dalla COP1 di Berlino del 1995, le trattative sul clima si sono sempre rette su un delicato equilibrio che si basa su tre punti:
Con Parigi si è avuto in un certo senso il superamento del concetto di differenziazione degli obblighi tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Rimangono solo poche eccezioni scritte nel testo dell’Accordo e del Paris Rulebook. Dopo l’Accordo sono rimasti però tantissimi nodi tecnici e politici che si è cercato di sciogliere di anno in anno, di COP in COP.
Nel 2016 alla COP22 di Marrackech si è redatto un documento in cui le Parti si impegnavano a cambiare passo ed allinearsi alle nuove indicazioni della scienza, è il “Marrakech action proclamation for our climate and sustainable development”.
Nel 2017, alla COP23 di Bonn con presidenza della Repubblica delle Fiji, si è definito il “Talanoa Dialogue”, un documento in cui le Parti si impegnano ogni cinque anni ad incrementare gli obiettivi delineati negli NDC, mediante una fase di dialogo preparatorio alcuni mesi prima delle COP e poi durante l’evento stesso delle COP.
Nel 2018 durante la COP24 di Katowice (Polonia) si è redatto il “Katowice Climate Package” che ha dato copertura alle questioni procedurali e contabili di Parigi: a) ai criteri di contabilizzazione degli NDC; b) alle tipologie di comunicazioni sull’adattamento; c) alle informazioni qualitative e quantitative biennali; d) ai rendiconti e monitoraggi periodici; e) alle valutazioni generali sull’Accordo originario; 6) alle modalità operative generali.
Nel corso del 2019, durante la COP25 di Madrid, c’è stata una revisione del “Warsaw International Mechanism for loss and damage“ sulla protezione dei danni associati ai cambiamenti climatici. Tutti gli altri temi sul tavolo (revisione articolo 6 sullo scambio di quote e sui finanziamenti) sono stati un vero buco nell’acqua a causa del clima generale che si era creato per il prospettarsi dell’abbandono dell’Accordo di Parigi da parte degli USA (a gestione Trump) e il conseguente irrigidimento di altri stati, in particolare la Cina. Gli Stati Uniti avevano presentato il recesso dall’Accordo il 4 novembre 2019 e l’uscita era prevista un anno dopo, il 4 novembre 2020. Tuttavia a causa dello scoppio della pandemia e la successiva interruzione delle sessioni formali del negoziato fino alla prima parte del 2021, tale scenario non si è mai verificato anche in virtù della pressoché immediata riadesione dell’Accordo di Parigi (a inizio del 2021) da parte del nuovo presidente Joe Biden.
La pandemia ha comportato la cancellazione di numerosi incontri preparatori e lo slittamento di tutte le sessioni negoziali, tra cui la COP26 di Glasgow. L’evento di Glasgow slittato al 2021 è stato contraddistinto dalla più alta partecipazione mai vista prima: circa 40 mila presenze nell’arco di due settimane. Tra le poche e pesanti defezioni da segnalare l’assenza di Putin e Xi Jinping invano attesi. Dal punto di vista politico è stato centrato l’obiettivo di enfatizzare il necessario sforzo per mantenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali. In Scozia c’è stata una piena attuazione del Paris rulebook in materia di Trasparenza, sull’Articolo 6 (scambio quote) e sulle nuove regole degli NDC. Con il “Global Methane Pledge” sono state previste nuove soglie di riduzione del metano. Con il “Globlal Coal to Clean Power Transition Statement” le Parti si sono impegnate nel ridurre l’utilizzo del carbone. Con il “Declaration on Accelerating the Transition to 100% Zero Emission Cars and Vans” i Paesi si sono impegnati a promuovere la diffusione di auto elettriche. Con la “Glasgow Leaders' Declaration on Forests and Land Use” un gruppo di 140 Paesi ha sottoscritto un accordo per arrestare la perdita di foreste.
Nel 2022, alla COP27 di Sharm el-Sheikh, quando ormai sembravano sfumati tutti i possibili accordi sul tavolo, è stato approvato il fondo “Loss and Damage” destinato ai Paesi più poveri che hanno subito gli effetti devastanti del cambiamento climatico (come ad esempio il Pakistan). Il fondo è stato approvato soprattutto grazie agli sforzi dell’Europa e in particolare dei membri di Irlanda e Germania. Tuttavia, non sono ancora stati stabiliti dettagli tecnici importanti, come l’ammontare e soprattutto il perimetro delle Parti che lo dovranno finanziare.
Il quadro delle regole sul clima resta ancora fortemente variegato soprattutto sugli obiettivi dei singoli Paesi (NDC) e su questo le future COP dovranno fortemente spendersi. Il primo round degli NDC è stato caratterizzato infatti da linee guida non particolarmente stringenti in cui le singole Parti hanno potuto scegliere come impegnarsi, cioè quali azioni mettere in atto e quante emissioni ridurre. C’è una forte necessità infatti di uniformare i target per poter valutare l’effetto aggregato dei dati nel rispetto degli obiettivi globali di aumento delle temperature, che andranno quindi aggiornati e confrontati continuamente con le ultime rilevazioni e gli scenari previsionali in continua evoluzione.
La guerra in corso, le crisi energetiche e i nuovi equilibri internazionali complicano ancora di più la situazione. Occorre agire subito e mantenere la barra dritta per rimanere ottimisti e “voir la vie en rose”.
Aris Baraviera, Milano, 15 febbraio 2023.
La COP 21 del 2015
Quando si parla di riscaldamento globale del pianeta si intende dire che c’è stato un incremento delle temperature medie globali che, seppur con intensità variabili, persiste ormai da qualche decennio. Questo significa che in alcune regioni potrebbero registrarsi tendenze al raffreddamento, senza per questo intaccare la tesi, ormai ampiamente dimostrata, del riscaldamento globale in atto.
Sebbene si tratti di un fenomeno globale, il cambiamento climatico può portare a variazioni estremamente eterogenee nelle diverse regioni terrestri. E’ noto infatti che le temperature atmosferiche abbiano registrato aumenti maggiori nelle zone polari rispetto al resto del mondo.
Proprio per contrastare il cambiamento climatico, nel novembre 2022 si è svolta a Sharm El-Sheikh la consueta conferenza annuale sul clima (COP 27) organizzata dall’UNFCCC. Il nome formale usato per l’evento è stato “COP27/CMP17/CMA4” perché tale acronimo completo indica il numero progressivo delle rispettive sessioni dei tre distinti accordi:
Va ricordato inoltre che nel 2020 nessun meeting è stato organizzato a causa della pandemia di Covid 19.
Inizia il 30 novembre 2015 a Parigi la COP 21, che porta al famoso Accordo di Parigi firmato da 195 paesi. Pochi giorni prima pareva dovesse essere annullata perché il 13 novembre c’era stato il noto attacco terroristico al Bataclan. L’adozione dell’Accordo arriva in data 12 dicembre 2015 ed è il frutto di un lungo percorso partito diversi anni prima. E’ innegabile che la COP 21 abbia rappresentato un buon nuovo inizio, come sostenuto anche dalle principali reti globali di organizzazioni e associazioni attive nella questione climatica. Tanti paesi con regole comuni, in uno sforzo congiunto, seppur tra i rispettivi interessi e difficoltà procedurali. L’accordo è stato firmato dai capi di stato e di governo con una cerimonia a New York il 22 aprile 2016 ed è entrato in vigore il 4 novembre 2016 al raggiungimento delle soglie di ratifica necessarie (55 paesi che rappresentano almeno il 55% delle emissioni globali di gas a effetto serra)
Tutte le Parti che lo hanno ratificato sono tenute ad osservarne le prescrizioni. Non sono previste però sanzioni economiche dirette e non potendo scavalcare la sovranità nazionale non esistono strumenti in grado di far applicare una disposizione ad un paese. Tuttavia l’esclusione dall’utilizzo dei meccanismi di mercato e la leva reputazionale internazionale rappresentano comunque una parziale garanzia di rispetto degli obblighi.
Rispetto al Protocollo di Kyoto con l’Accordo di Parigi si ha il superamento del tradizionale concetto di differenziazione degli obblighi tra paesi sviluppati e in via di sviluppo. Con poche eccezioni, infatti l’accordo definisce regole e disposizioni comuni a tutte le Parti aderenti, lasciando tuttavia delle specifiche forme di flessibilità.
I tre principali obiettivi a lungo termine sono i seguenti:
Uno dei temi fondamentali nel percorso dell’accordo di Parigi sono i cosiddetti INDCs (Intended Nationally Determined Contributions) ovvero gli impegni che ciascun Stato Membro dichiara di voler mettere all’interno del futuro accordo. Per fare qualche esempio, il target del Canada è una riduzione delle emissioni di gas serra del 30% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030. L’Unione Europea ha fissato un target di riduzione delle emissioni di gas serra pari al 40% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030. Il Giappone ha fissato un obiettivo di riduzione delle emissioni pari al 26% dei livelli del 2013 entro il 2030. Gli Stati Uniti prevedono una riduzione del 27% entro il 2025 rispetto ai livelli del 2005.
L’articolo 4 dell’Accordo di Parigi prevede l’obbligo per ogni paese di elaborare e comunicare ogni 5 anni il proprio INDC (detto anche NDC) garantendo livelli di ambizione crescenti. Al termine del periodo di attuazione i revisori esterni possono constatare l’effettivo (o meno) raggiungimento dell’obiettivo.
Significativi sono inoltre i riferimenti a una serie di connessioni tra il cambiamento climatico e “l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile”, un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto qualche mese prima dell’Accordo di Parigi, nel settembre 2015, dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Proprio la connessione tra l’Agenda ONU sullo Sviluppo Sostenibile e l’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico è alla base della riconversione energetica in atto in tutto il pianeta, dove ingenti investimenti stanno dando un forte impulso anche alla Finanza Sostenibile e al concetto di investimento sostenibile, che viene indicato con l’acronimo ESG, che significa Environmental (ambientale), Social (sociale) e Governance (cioè l'insieme dei principi, delle regole e delle procedure che riguardano la gestione e il governo di una società, di un'istituzione, di un fenomeno collettivo).
Come vediamo in Tv e praticamente dappertutto, tutte le aziende dichiarano già di aver posto in essere azioni e comportamenti sostenibili. Eppure la corsa alla riconversione energetica è davvero appena iniziata.
Aris Baraviera, Milano, 15 gennaio 2023
La COP 3 del dicembre 1997
Come raccontato nell’ultimo articolo di questa rubrica, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici che ha dato origine agli incontri annuali chiamati COP (Conferenze delle parti) nasceva con la “Conferenza di Rio De Janeiro” del 1992. Il dibattito sul clima era stato però avviato già nel 1979 con la prima “Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima” svoltasi a Ginevra.
Via via che le ricerche scientifiche sul clima si ampliavano e si approfondivano, anche il dibattito internazionale si intensificava con toni spesso conflittuali, soprattutto dopo la scoperta del cosiddetto “buco di ozono” sull’Antartico avvenuta nel 1985, la cui origine è da attribuire alle attività umane. Anche a seguito di questo, nel 1988 venne istituito l’organismo scientifico IPCC dell’ONU con il mandato di valutare le informazioni disponibili sui cambiamenti climatici, esaminare gli impatti sociali ed economici e proporre strategie di risposta per prevenire e controllare i cambiamenti del clima.
L’11 dicembre 1997 durante la COP 3 di Kyoto, in Giappone, fu approvata una bozza che era in stato di lavorazione da circa due anni e che dopo una serie di discussioni e di mediazioni diventò il Protocollo di Kyoto. E’ innegabile che il Protocollo e i suoi negoziati abbiano effettivamente fatto registrare risultati importanti che ci consentono oggi di poter ancora guardare con speranza al futuro.
Uno dei principi di Kyoto stabiliva che i Paesi industrializzati dovevano dare il buon esempio per questioni etiche e di equità nei confronti dei Paesi più poveri, cominciando per primi a ridurre le loro emissioni di gas serra, anche in forma minima o quasi simbolica, e fornendo i necessari aiuti affinchè i Paesi in via di sviluppo potessero fare altrettanto in un secondo tempo. Il Protocollo doveva servire anche come opportunità per identificare nuove modalità di sviluppo socio-economico , che non avessero la necessità di rincorrere a rilevanti intensità di energia.
Il protocollo di Kyoto impegnava i paesi industrializzati e quelli ad economia in transizione a ridurre complessivamente del 5%, entro il 2012, le emissioni dei principali gas capaci di alterare l’effetto serra naturale del nostro pianeta, avendo come riferimento di partenza il 1990 e come riferimento finale il quinquennio 2008- 2012. Nessun tipo di limitazione alle emissioni di gas ad effetto serra era previsto per i paesi in via di sviluppo.
Per i Paesi dell’allora Unione Europea la riduzione prevista era dell’8%, per gli Stati Uniti del 7%, del 6% per Canada, Giappone, Polonia e Ungheria. Ogni paese, tranne quelli in via di sviluppo, aveva il suo specifico obiettivo. Le emissioni provenienti dal trasporto aereo e da quello marittimo non erano state però prese in considerazione per via delle difficoltà di attribuire tali emissioni ad una singola parte (erano falliti gli accordi sulla possibilità di optare per la nazione di partenza, quella di arrivo oppure sulla sede legale in cui risiede la compagnia).
Gli ambiti industriali più normati erano l’energia, la chimica metallurgica, la produzione di minerali, di idrocarburi alogenati, di solventi, di esafluoruro di zolfo, l’agricoltura e i rifiuti. I meccanismi di cooperazione tra Paesi erano stati definiti “meccanismi flessibili” e si distinguevano in tre tipologie (joint implementation, l’emission trading, il clean development mechanism).
Il Protocollo di Kyoto non si prefiggeva soltanto il conteggio delle emissioni di gas serra, ma stabiliva anche dei crediti di emissione -detti skins- che potevano essere ottenuti ad esempio con opere come le forestazioni per creare la biomassa a spese dell’anidride carbonica atmosferica attraverso il naturale processo di fotosintesi clorofilliana delle piante. L’IPCC era stato incaricato di preparare gli standards richiesti e la relativa modalità di conteggio. I crediti di emissioni andavano pertanto a compensare le emissioni di gas serra di un determinato paese e potevano anche essere ceduti. Nasceva così un vero e proprio mercato dei crediti, dove i soggetti più virtuosi vendevano le loro quote ad altri soggetti - diciamo - ritardatari. Il Protocollo istituzionalizzava inoltre la questione dell’adattamento ai cambiamenti climatici.
Per ciascuno dei sei gas serra individuati dall’IPCC (l’Anidride carbonica, il Metano, l’Ossido di azoto, gli Idrofluorocarburi, i Perfluorocarburi, l’Esafluoruro di zolfo) era stato introdotto il concetto di “anidride carbonica equivalente” in modo tale che fosse possibile stabilire un’unica unità di misura. Ad esempio il Metano era stato classificato come 21 volte più pericoloso dell’Anidride carbonica, l’Esafluoruro di zolfo addirittura 23.900 volte maggiore.
La media delle emissioni annuali alla fine del quinquennio 2008/2012, doveva essere pari o inferiore alla quota annuale assegnata. Ogni Paese doveva istituire il cosiddetto “registro nazionale delle emissioni”. Insieme ai registri nazionali era nato anche il registro internazionale su cui era prevista una tassa del 2%, che serviva a finanziare un fondo per l’adattamento ai cambiamenti climatici dei Paesi più poveri. Il mancato rispetto delle quote assegnate prevedeva come minimo una penalizzazione dei crediti di emissione per il futuro, e come massimo una sanzione proporzionata allo sforamento dell’eccesso da considerare come risarcimento danni causati all’ambiente.
Per concludere possiamo dire che il Protocollo di Kyoto è stato sicuramente un primo importante traguardo raggiunto sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici. Purtroppo però il differimento della sua entrata in vigore ha pesato moltissimo sulle considerazioni finali che ne facciamo oggi ex post, e di fatto ha reso subito necessarie nuove implementazioni ed evoluzioni in parallelo alla sua attivazione. Il Protocollo infatti entrò in vigore solo nel febbraio 2005, in seguito alla ratifica della Russia. In precedenza c’era stata la mancata ratifica degli Stati Uniti (il Senato si era opposto con la Byrd Hagel Resolution) che aveva fatto mancare il numero legale, poiché gli accordi sottoscritti nel 1997 prevedevano che almeno 55 paesi, che insieme rappresentavano almeno il 55% delle emissioni globali, dovessero ratificare appunto il Protocollo. Come considerazione generale possiamo anche rilevare che nelle intenzioni iniziali, il Protocollo avrebbe dovuto obbligare i paesi industrializzati a rendere più efficiente e razionale l’uso dell’energia, promuovere una transizione che discriminasse nel tempo i combustibili fossili e identificasse nuove modalità di sviluppo socio-economico più sostenibili. Tale filosofia ha visto però nel tempo una forte opposizione di Usa, Canada, Giappone, Australia e Nuova Zelanda, paesi che hanno posto in essere delle questioni economiche sulla mancata crescita del loro PIL nazionale e contestato il mancato allargamento degli obblighi anche ai paesi in via di sviluppo, con particolare riferimento a quelli emergenti come Cina, Russia, India e Brasile. Alla fine del 2012, preso atto del mancato raggiungimento di parecchi gli obiettivi previsti, si crearono le condizioni per avviare un nuovo processo di elaborazione che avrebbe poi portato alla nascita, durante la COP 21 del 2015, dell’Accordo di Parigi.
Aris Baraviera, Milano, 23 dicembre 2022
Si è appena conclusa la COP 27 a Sharm el Sheikh
Come già scritto più volte in questa rubrica, il cambiamento climatico è principalmente determinato dalle attività dell’uomo e in particolare dalle continue emissioni di gas serra in atmosfera, cresciute in maniera persistente a partire dalla rivoluzione industriale. Tale incremento ha determinato il raggiungimento e il superamento – a cavallo tra il 2014 e il 2015 – di livelli mai raggiunti prima nella storia dell’uomo, e la velocità con la quale tali concentrazioni atmosferiche stanno aumentano mettono a rischio il futuro della nostra specie.
L’anidride carbonica è certamente il gas serra più noto e presente a livello globale, ma altri gas sono in grado di agire in maniera molto più intensa. Per via delle ingenti emissioni dell’uomo, sono state riportate in atmosfera enormi quantità di carbonio rimaste stipate per millenni all’interno della crosta terrestre in forma di fossili, determinando un aumento sostanziale del calore trattenuto all’interno dell’atmosfera. Come è noto la CO2 e gli altri gas serra sono in grado di trattenere parte del calore che arriva dai raggi solari. Si stima che dal 2010 al 2020 la temperatura media del globo sia cresciuta di 1,1 gradi rispetto ai livelli preindustriali.
La necessità di comprendere i fenomeni legati ai cambiamenti climatici aveva già portato nel 1988 alla nascita dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). L’IPCC è un foro scientifico delle Nazioni Unite composto da 155 paesi membri che è stato strutturato in tre gruppi: il primo per valutare gli aspetti fisico-scientifici, il secondo per studiare la vulnerabilità economica dei sistemi al cambiamento climatico, il terzo per considerare le opzioni di mitigazione.
I negoziati sul clima (come quello che si è appena concluso in Egitto denominato COP 27) nascono invece con la Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 che porta all’istituzione di tre Convenzioni delle Nazioni Unite: 1) contro la desertificazione; 2) contro la scomparsa della biodiversità; 3) contro il cambiamento climatico (UNFCCC).
La Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (UNFCCC - United Nations Framework Convention on Climate Change) ha rappresentato un passo fondamentale per contrastare il cambiamento in atto ed è entrata in vigore nel 1994. Le Parti, ossia gli Stati che l’hanno ratificata, dal 1995 si riuniscono con frequenza annua nella Conferenza delle Parti (COP). La prima COP si è svolta a Berlino nel 1995 (COP 1). Il Protocollo di Kyoto (COP3 del 1997 con ratifica differita) e l’Accordo di Parigi (COP 21) costituiscono due tra i più noti strumenti attuativi della Convenzione e dei suoi obiettivi. Sono 197 le Parti che hanno ratificato la Convenzione UNFCCC e che partecipano stabilmente ai relativi negoziati a cui si aggiunge la Santa Sede che partecipa in qualità di osservatore. Non tutte le nazioni aderenti alla Convenzione hanno ratificato i successivi strumenti adottati dalla COP. Le Parti aderenti al Protocollo di Kyoto sono infatti 192, quelle aderenti all’Accordo di Parigi 193.
Presso l’UNFCCC si distinguono i cinque macro gruppi regionali previsti dalle Nazioni Unite: African Pacific Group, Asian Pacific Group, Eastern European Group, Latin American and Caribbean Group, Western European and others Group. Questa suddivisione garantisce un’equa distribuzione geografica, ma non è quasi mai utilizzata a fini negoziali. A esclusione delle sessioni plenarie, dove ogni Parte della Convenzione presenzia in maniera autonoma con la propria bandiera, in genere i paesi alle altre sessioni sono rappresentati da una propria alleanza negoziale di appartenenza. Negli anni si sono consolidati diversi gruppi negoziali, l’Italia è nei 27 paesi della UE.
Al termine di ogni COP vengono adottate delle Decisioni che poi devono essere successivamente ratificate dalle Parti. Le regole per adottare le Decisioni sono sempre state oggetto di divergenza di vedute e per questo non sono mai state adottate all’unanimità, né con soglie di maggioranza. Si è pertanto sino ad oggi proceduto per consenso, più o meno palese.
Le COP stanno diventano sempre più importanti e prioritarie perché gli ultimi rapporti pubblicati dall’IPCC hanno ulteriormente rafforzato le stime e gli scenari presentati nei precedenti rapporti e hanno posto una pietra tombale sul residuo dibattito circa la natura antropica del cambiamento climatico in atto. Gli scenari previsionali presentati nel 2022 sono cinque e tutti evidenziano che le temperature medie globali continueranno a crescere almeno fino alla metà di questo secolo. Per il 2100 lo scenario migliore prevede un aumento di 1,4 gradi, gli altri scenari prevedono un preoccupante aumento stimabile in un range che va da + 1,8 a + 4,4 gradi. Se le COP dovessero fallire gli obiettivi dei prossimi decenni, i mutamenti climatici potrebbero essere irreversibili e il futuro della Terra potrebbe avviarsi verso una strada di non ritorno.
Aris Baraviera, Milano, 5 dicembre 2022.
FOCUS SUL PARCO DOVE SI ALLENA LA COMMUNITY DEI PORADA RUN
Il Parco 2 Giugno alla Porada, detto più comunemente “La Porada”, è un parco pubblico situato nella zona nord ovest di Seregno (MB) ed esteso per circa 50 ettari; è costituito da boschi naturali spontanei associati a boschi impiantati e ampi spazi a prato intersecati da percorsi ciclopedonali molto frequentati. La forma è simil rettangolare e gli spazi sono delimitati al confine con le zone industriali di Meda e Cabiate, e completamente aperti verso sud e verso est. E’stato realizzato tra il 1997 e il 2000 all’insegna del recupero della biodiversità tipica dei boschi naturali che un tempo lontano costituivano la Pianura Padana. Qui si trovano olmi, farnie, pini silvestri, betulle, carpini, ontani, robinie e sambuchi. La fauna è scarsa sia perché mancano corsi d’acqua, sia per via del fatto che il parco è sempre molto frequentato. E’possibile comunque avere la fortuna di incontrare dei piccoli mammiferi come il riccio, il coniglio selvatico e la lepre. Più numerosi sicuramente sono invece gli avvistamenti di uccelli: merli, usignoli, passeri, fringuelli, cardellini, ma anche il picchio rosso, il rapace gheppio, il codibugnolo, la ballerina bianca, il regolo, il ciuffolotto e il frosone. Nel periodo delle migrazioni è possibile osservare il colombaccio, la capinera, il balestruccio, il verzellino e lo scricciolo.
La nascita ufficiale del Parco 2 Giugno alla Porada è riconducibile al 30 gennaio 2001 con la pubblicazione della relativa delibera del Consiglio Comunale di Seregno. Il parco nasce come comprensorio del Parco della Brianza Centrale, confluito poi nel 2019 nel Consorzio del Parco Grugnotorto Villoresi e Brianza Centrale (in breve Parco GruBria). Con atto stipulato il 19 dicembre 2019, infatti i Comuni di Bovisio Masciago, Cinisello Balsano, Cusano Milanino, Desio, Lissone, Muggiò, Nova Milanese, Paderno Dugnano, Seregno e Varedo compresi nel territorio del Parco Grugnotorto Villoresi e del Parco Brianza Centrale hanno tra loro costituito un consorzio ai sensi dell'articolo 31 del D.lgs.267/2000 (TUEL) denominato “Consorzio del Parco Grugnotorto Villoresi e Brianza Centrale”. La sede del parco locale di interesse sovracomunale GruBria è attualmente a Nova Milanese. Tra i parchi ricompresi nel GruBria si segnala anche il Parco agricolo del Meredo situato anch’esso nel territorio di Seregno.
Nel corso degli anni "La Porada" ha via via sviluppato attitudini allo svolgimento di pratiche sportive amatoriali, realizzato aree gioco per i bimbi, aree attrezzate per manifestazioni all’aperto, parcheggi di pertinenza, orti urbani. Molte migliorie sono state realizzate nel triennio 2004, 2005, 2006, altre nel 2011 e nel 2016. Oggi il parco, che ingloba nel territorio una serie di strutture sportive, ha anche diverse aree giochi per i bimbi, un bellissimo campo da basket di colore azzurro, una zona picnic per le famiglie, piste ciclabili, percorsi di running, panchine, fontanelle, aree cani recintate e divise per taglia, alcuni campi da bocce e attrezzi per il calisthenics, che è una ginnastica a corpo libero praticata all’aperto. Nel 2022, grazie anche all’opera di forte sensibilizzazione della community Porada Run che dal 7 maggio 2021 gode della concessione di patrocinio per l’utilizzo del logo del Comune di Seregno, il parco è stato dotato di illuminazione serale. In particolare è stato realizzato il cosiddetto “miglio luminoso” per i runner che si allenano alla sera, composto da due circuiti ad anello illuminati da 109 lampioni per un totale di circa 1600 metri. Le luci sono state messe anche al campo di basket. Inoltre sono stati illuminati alcuni ingressi che prima risultavano completamente privi di luce serale e migliorati invece quelli che lo erano solo parzialmente. Molti dei nuovi lampioni sono anche dotati di telecamere di videosorveglianza collegate direttamente con la centrale della Polizia Locale di Seregno, per garantire la sicurezza di tutti.
Pur essendo un parco molto amato e molto frequentato non è esente da critiche. C’è chi riferisce che l’erba viene tagliata piuttosto di rado, chi si lamenta della scarsa manutenzione dell’area giochi per bambini (infatti il famoso galeone è fuori uso da mesi). Alcuni runner non sopportano il ronzio costante prodotto dai cavi dell’alta tensione che tagliano il parco trasversalmente. Altri utilizzatori della Porada lamentano la presenza di troppi fastidiosi piccoli insetti come i moscerini. Altri ancora fanno notare che non vengono mai rimossi tempestivamente gli alberi secchi e traballanti che di fatto diventano pericolosi durante le giornate molto ventose. Alcuni anziani raccontano che troppo spesso ci sono cani liberi dal guinzaglio che girano fuori dagli spazi a loro riservati. Ci sono poi mamme che indicano la presenza di molte zanzare in prossimità dei giochi dei bambini e mostrano come si siano addirittura formati dei nidi di vespa tra le assi di legno attigue all’area. C’è anche chi parla di parco troppo periferico e lontano dal centro città. Alcuni studenti che vengono qui di frequente vorrebbero cercare mete alternative dato che nei fine settimana il parco è sempre troppo affollato. Alcune ragazze fanno notare che non ci sono bagni pubblici e che la ristorazione è limitata ad un unico bar. Un signore di mezza età racconta che è venuto qui per vedere con il figlio le partite di calcio degli Europei dello scorso anno e ha dovuto raggiungere a tentoni il maxischermo perché il parco di sera era ancora completamente buio.
La nostra redazione ritiene che l’amministrazione comunale abbia già mostrato una spiccata sensibilità e attenzione verso la struttura. "La Porada", insomma, non è certamente un parco elegante e curato come i giardini della Reggia di Monza, o come quelli della Villa Arese Borromeo di Cesano Maderno, ma è comunque un luogo che progressivamente sta trovando spazio nel cuore dei seregnesi. Inoltre la presenza costante dei Porada Run si sta rivelando positiva sia per la cura del verde e dei servizi, sia per la diffusione identitaria e culturale dello sport nei parchi e più in generale in contatto con la natura.
Aris Baraviera, Milano, 19 ottobre 2022.
* La redazione ringrazia per il supporto il Circolo Culturale Seregn de la Memoria e in particolare Carlo Perego.
Dentro un’estate rovente
La rivista New Scientist e il Ministero della Salute indicarono in 4.000 i decessi in Italia attribuibili all’ondata di calore nell’estate del 2003, quando le temperature massime furono per settimane intorno ai 40° C. Secondo l’Istat le morti furono 18.000 in più rispetto all’anno precedente. Firenze, Prato, Grosseto, Trento, Piacenza e Milano furono le città più roventi. In precedenza un’estate simile si era avuta forse nel lontano 1976. Dal 2003 il caldo africano colpisce un’estate su due. Il 2015 ha avuto il luglio più caldo della storia, forse pari merito con quello abbiamo appena superato. E c’è l’estate del 2017 con la siccità e la crisi dell’acqua del lago di Bracciano, quando Roma ha rischiato la sospensione della fornitura idrica e il razionamento feroce. La crisi climatica amplifica fenomeni già esistenti e altri nuovi, rapidi, talvolta violenti. Ci sono sempre meno foreste, meno ghiacciai, erosioni di coste, innalzamento del livello dei mari e nuove patologie. Nel 2019 a Venezia l’acqua alta si è manifestata per ben 28 volte. Genova guida il triste primato delle alluvioni stagionali. La tempesta Vaia in Trentino nel 2018 ha abbattuto l’incredibile cifra di circa 42 milioni di alberi, con venti che hanno superato i 200 km/h e con 800 mm di pioggia caduti in soli tre giorni. La tropicalizzazione del Mediterraneo è sempre più attuale e l’alga tossica, la Caulerpa taxifoliane, ne è ormai l’esempio più classico.
Ai fatti di cronaca di questa estate, spesso catastrofici come la tragedia della Marmolada, epocali come la secca del Po e gli incendi in Versilia, e altri che passano quasi inosservati come i casi di virus West Nile e la presenza di pesci tropicali nei nostri mari, c’è chi ancora risponde con superficialità, negando il cambiamento climatico globale accampando ipotesi spesso fantasiose per cui le temperature salirebbero per cause naturali e in modo ciclico. Intanto a Nizza Monferrato e a Ferrara nelle scorse settimane le temperature sono arrivate a 40 gradi. La più alta in Italia è stata rilevata a Moie, nell’entroterra anconetano, dove è salita fino a 43,4° gradi.
Intanto è uscito il nuovo rapporto ISPRA che ci dice che nel 2021 la cementificazione si è estesa per altri 69 chilometri quadrati, a svantaggio di produzione agricola, biodiversità, protezione per alluvioni e ondate di calore.
Pochi scettici affermano ancora che il riscaldamento globale non sia provato, lo negano completamente, o sottolineano i pericoli di esaminare solo un punto di vista in un dibattito scientifico, che ritengono ancora aperto. Le controversie sono molto più vigorose a livello mediatico che non all’interno della comunità scientifica, questo ormai dalla pubblicazione di importanti studi avvenuta nel 2019. Le posizioni degli scienziati scettici non sono univoche. Qualcuno nega l’esistenza stessa del riscaldamento; altri lo attribuiscono a cause naturali; altri ammettono che possa in parte dipendere dalle azioni umane, ma che non ci si possa ancora pronunciare con sicurezza considerando che le misurazioni e le serie storiche di statistica sono relativamente recenti. La reale entità del riscaldamento e le relative cause sono talvolta temi di accese discussioni per via del fatto che il clima terrestre non è considerabile come un sistema statico, avendo presentato nella sua storia cambiamenti graduali, ma intensi anche senza l’intervento dell’uomo.
La Terra sopravviverà. Il problema è se sopravviveremo noi, andando avanti così. E non solo fisicamente, perché valanghe, uragani e siccità faranno stragi: ma anche perché la nostra specie così giovane, si concepisce solo in questo ambiente, che è parte della sua identità e non può farne a meno senza diventare un’altra cosa. O estinguersi.
A partire dalla Rivoluzione francese generazioni di donne e di uomini hanno legittimamente sperato che la vita dei loro figli e nipoti potesse essere migliore della loro e di quella dei loro padri. Quelle donne e quegli uomini avevano scoperto il futuro. Per esso hanno lottato duramente, lavorato e trepidato. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso però il futuro è stato nuovamente dimenticato, forse ripudiato, rimosso, abbiamo cominciato a vivere confinati nel presente e abbiamo smesso di alzare lo sguardo sull’orizzonte.
Secondo il climatologo Luca Mercalli la vera partita per salvare il pianeta si gioca entro il 2030: “Il 2050 indicato come target in diversi progetti e normative è una data troppo lontana. Bisogna intervenire subito, non c’è tempo da perdere. Se non freniamo l’aumento della temperatura e la riduzione di anidride carbonica nell’atmosfera consegneremo ai nostri figli e nipoti un pianeta invivibile con processi catastrofici irreversibili. L’anidride carbonica nel mondo viene prodotta principalmente da: Cina, USA, Europa e India. In Europa e USA si stanno già facendo passi significativi verso una possibile riduzione. I fattori più inquinanti sono: in primis il carbone, poi il petrolio, in terza posizione c’è il gas e in quarta il cemento. I settori merceologici dove si inquina di più sono: la distribuzione di corrente e calore, i trasporti, l’industria pesante. Poi abbiamo l’agricoltura e la gestione dei rifiuti.”
Il Green Deal europeo è la tabella di marcia affinché l'UE diventi neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050. Nel 2021 l'UE ha reso la neutralità climatica, ovvero l'obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050, giuridicamente vincolante nell'UE. Ha fissato un obiettivo intermedio di riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030. La legislazione concreta che consentirà all'Europa di raggiungere gli obiettivi del Green Deal è stabilita nel pacchetto "Fit for Fifty Five”" presentato dalla Commissione nel Luglio 2021. L'UE sta inoltre lavorando per realizzare un'economia circolare entro il 2050, creare un sistema alimentare sostenibile e proteggere la biodiversità e gli impollinatori. Per finanziare il Green Deal, la Commissione europea ha presentato a Gennaio 2020 il Piano europeo di sostenibilità che mira ad attrarre almeno 1000 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati durante i prossimi dieci anni. In ambito strettamente finanziario sono già stati emanati tre importanti regolamenti europei (Regolamento SFDR 2019, Regolamento Tassonomia 2020, Regolamento Preferenze di Sostenibilità 2021) per favorire appunto la transizione. All'interno del piano di investimento, il Fondo per la transizione giusta è progettato per supportare le regioni e le comunità più interessate da una transizione verde, ad esempio le regioni che sono fortemente dipendenti dal carbone.
In attesa del Net Zero sulle emissioni EU, che si spera possa valere per tutti e non solo per l’Europa, i singoli paesi e quindi l’Italia hanno dei compiti specifici a livello locale, che sono quelli relativi alla mitigazione e all’adattamento al nuovo contesto climatico. Un contesto davvero nuovo che proprio in questi giorni tutti noi avvertiamo plasticamente.
In Italia le valutazioni e rilevazioni specifiche vengono svolte dal 2015. Il Ministero dell’Ambiente ha affidato il compito al Centro euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici. C’è quindi una visione nazionale per ridurre i rischi e le vulnerabilità. Le strategie di mitigazione agiscono sulle cause climatiche. Le strategie di adattamento invece agiscono sugli effetti dei cambiamenti climatici. La mitigazione è efficace nel lungo periodo, l’adattamento nell’immediato. La mitigazione è più su larga scala. L’adattamento è soprattutto una strategia locale. Le misure chiamate win-win sono quelle a metà tra l’adattamento e la mitigazione. La mitigazione riduce la pericolosità, l’adattamento riduce la vulnerabilità. In Italia abbiamo messo in campo già misure Soft, misure Verdi e misure Grigie. Si va dall’informazione- sensibilizzazione e linee guida alle opere di difesa, anche ingegneristiche. Ci sono anche gli interventi chiamati Aree Buffer o Cuscinetti. Tre regioni come l’Emilia Romagna, La Sardegna e la Lombardia sono in prima linea su questi temi. Bologna in questo è all’avanguardia soprattutto nell’utilizzo dei fondi europei.
La mitigazione sembra essere entrata anche nei temi della campagna elettorale italiana, con partiti che ormai promettono di piantare milioni di alberi nei prossimi anni. Con elezioni politiche che si prospettano imminenti per l’ormai conclamata crisi di Governo e per il gran caldo che ha persino “sciolto” le due Camere.
Aris Baraviera, Milano, 6 agosto 2022.
C’è in Italia una pista in mezzo al bosco che si trova in un posto incantevole a 900 mt sul livello in montagna che potrebbe essere una meta ideale per le nostre vacanze estive 2022. Si trova a Masen di Giovo, in Val di Cembra sopra Trento.
Un tracciato perfetto per allenarsi e per ritiri in altura senza trascurare la possibilità di gareggiare per i velocisti per i saltatori per i lanci (pedana del peso). Particolarità? Si perfetta per il mezzofondo e il fondo perché misura 800 mt mentre le piste di solito sono di 400 mt. Se passo di lì ci faccio una corsetta (e magari mi innamoro del posto e non torno più a casa…)
Corrado Montrasi
Milano, 31/07/2022
Nel dire comune, molti detti legati al significato della corsa assumono un’accezione negativa e sono più legati allo stress che al benessere fisico. Sembrano caratteri distintivi della fretta: “corro sempre”, “sono di corsa”, “devo fare tutto di corsa”. I meno giovani ricordano con un sorriso le corse mattutine del ragionier Fantozzi che tra mille affanni cerca di timbrare il cartellino.
La corsa dei runners però non è fretta, il vero runner non ha mai fretta perchè essa è del tutto estranea a chi corre solo per il piacere di farlo. La fretta sembra estranea anche ai Porada Run che, venerdì scorso 17 giugno, all’alba, hanno deciso di percorre 5 km per partire col piede giusto e iniziare in maniera positiva la giornata.
Alle 5,25 la nostra redazione è già sul posto dove è fissato il punto di partenza, al confine con Cabiate, nei pressi del Porada Caffe e quasi di fronte al PalaSomaschini. Siamo a Seregno provincia di Monza Brianza.
Teo il Vichingo – uno dei coach del gruppo – riconoscibile dall’elmetto cornuto, arringa la folla dei circa 300 runners accorsi all’evento. Nel silenzio del mattino la sua voce amplificata si sente a distanza di quasi un chilometro. Prima della partenza c’è spazio per un breve discorso di Rossi, sindaco di Seregno. Saluta la “marea arancione” dei Porada Run che per l’occasione indossano le magliette orange, scelte così in funzione della manifestazione “Seregno Sport Week”. Lui non ha la fascia tricolore oggi, ma è vestito di arancione perché è lì per correre.
La partenza non è la solita linea larghissima dove si vedono centinaia di atleti schierati come i guerrieri di Braveheart o del Signore degli anelli prima della battaglia. Il clima è più disteso perché l’evento è praticamente “in famiglia”. Si parte alla 5,45 quasi puntuali. Alle 5,50 arriva una donna che parcheggia il suo scooter e si mette ad inseguire il gruppo. Alle 5,55 è la volta di un uomo che arriva in auto. Probabilmente si è svegliato tardi, il gruppo è già lontano, ma lui non sembra scomporsi più di tanto.
Il percorso dei 5 km disegnato dagli organizzatori (Filippo Fumagalli, Renzo Barbugian e Alessandra Trabattoni) prevede il passaggio nel quartiere Santa Valeria, al Meredo, al Ceredo e al Parco 2 Giugno, quest’ultimo conosciuto da tutti come Parco alla Porada.
Dopo poche centinaia di metri percorsi dalla partenza è già chiaro che ci sono tanti modi differenti di interpretare la corsa. Ogni runner traccia i contorni di un’identità personale, di un piccolo universo a parte in cui ciascuno è libero di inserire i propri valori, le proprie interpretazioni, i propri significati. Ciascuno corre a modo suo, con le proprie ambizioni, prospettive divergenti, scopi spesso difficili da definire. Molti corricchiano, sorridono e cercano di godersi ogni singolo momento. Altri sembrano più seri e concentrati, astratti da tutto e da tutti e allungano il passo cercando di spezzare il fiato. Non è per il piazzamento che si corre. Non si pensa al traguardo. Nella corsa vissuta come liberazione e piena espressione del sé l’unica cosa che conta davvero è il percorso. E quando si prende il ritmo, quando il battito del cuore si regolarizza e le gambe procedono in maniera quasi automatica, si avverte uno strano senso di libertà. E’ la libertà che deriva dalla leggerezza. La mente del runner si svuota, si libera, diventa un campo aperto in cui i pensieri fluttuano lievi senza appesantire il passo. Ecco allora che accade la magia perché addirittura ci si dimentica di ciò che si sta facendo. Ci si dimentica della corsa.
Porada Run è una community running e walking inclusiva. Promuove la cultura dello sport, dell’attività fisica all’aperto. E’ anche un progetto che si avvale di diverse figure professionali ed aziende su progetti di salute e benessere fisico e psichico. Uno dei coach, Marco Castellani, racconta alla nostra redazione che il gruppo si trova, ormai da qualche anno, tutti i mercoledì al Parco della Porada, da cui appunto deriva il nome della community e il colore di riferimento, il verde. Qui le persone vengono divise in gruppi e ogni gruppo ha un proprio coach. Molti runners si organizzano per allenarsi anche in altri giorni della settimana. Nascono sottogruppi che coinvolgono amici degli amici. I coach sono in totale 9 (Carolina, Alessandra, Renzo, Alessandro, Fabrizio, Matteo il Vichingo, Filippo, Daniele e Marco). Tutti i coach sono maratoneti e pacer. Molti poradini hanno corso la Maratona di Milano qualche mese fa. Il lavoro sulla parte atletica viene seguito in particolare da Daniele Tamoni. Le tecniche per migliorare la corsa vengono affinate invece da Renzo Barbugian. Alessandra Trabattoni è molto attiva sui social e dà visibilità alle iniziative del gruppo. Il Barbugian sembra un tipo molto carismatico e proprio per la capacità di farsi seguire dalla gente ricorda un personaggio di un famoso film interpretato da Tom Hanks. Quando Forrest Gump percorre tutta la città, la contea, poi l’intera Alabama e raggiunge l’Oceano Pacifico e l’Atlantico, trascina con sé una marea incredibile di persone.
Dopo circa 23/24 minuti di corsa arrivano al traguardo i primi 3 corridori. Vengono accolti calorosamente dalla coach Alessandra che è la speaker della manifestazione. Anche se non esistono numeri e graduatorie ufficiali, dato il carattere non competitivo e familiare della manifestazione, la redazione prende nota dei loro nomi che sono: Francesco Michelon, Pezzuto Glauco e Michele Longoni. Subito dietro i primi tre arrivano altri tre runners che decidono un po’ a sorpresa di non tagliare il traguardo e di rifare un altro giro di 5 km. Passano pochi secondi ed ecco il sindaco di Meda, Luca Santambrogio. Anche Alberto Rossi, il sindaco di Seregno, chiude con un ottimo tempo in compagnia dell’assessore William Viganò. La prima donna a tagliare il traguardo è Giulia Rovagnati. La più piccola iscritta alla corsa si chiama invece Clara, ha 7 anni e con la sua mamma corre i 5km in meno di 40 minuti. Che campionessa! Altri runners arrivano un po’ alla spicciolata e alle 6,34 si fa largo un folto gruppo di poradini. Alle 6,44 tagliano il traguardo una quindicina di donne che sembrano molto soddisfatte e che chiacchierano allegramente. Passato un giro completo di orologio dal via della corsa s’intravedono ancora persone sorridenti che devono completare il percorso. Non c’è fretta.
In genere alle corse c’è un aspetto conviviale che si manifesta a fine gara, quando al punto ristoro i runners possono dividere il pasto, raccontarsi le proprie esperienze e tracciare insieme progetti e obiettivi futuri. E’ il momento in cui si intrecciano nuove relazioni, nascono nuove amicizie e ci si sente parte di un micromondo in cui si parla la stessa lingua, una lingua fatta di fatica e sudore, di voglia di superare limiti e infrangere barriere.
La corsa delle 5,45 dei Porada Run è diversa anche in questo, perché stavolta c’è giusto il tempo di fare colazione e scambiarsi i saluti. Siamo nell’operosa Brianza, bisogna “correre” al lavoro.
Aris Baraviera, Milano, 20 giugno 2022.
Ecco un primo bilancio dell’ottava edizione della KCR for Peace
Il 5 maggio sotto una leggera pioggia si è conclusa sulla spiaggia di Stintino la Keep Clean and Run 2022, dopo sette tappe in cui Roberto Cavallo divulgatore ambientale ed eco-atleta e Giulia Vinco ultra-runner hanno attraversato Toscana e Sardegna con due sacchi per la raccolta dei rifiuti, che piano piano si sono riempiti ad ogni chilometro percorso. I rifiuti abbandonati lungo le strade e sentieri sono purtroppo una cattiva abitudine con cui, a malincuore, abbiamo imparato a convivere e che quasi non notiamo più.
Durante la prima tappa, sui sentieri della Grande Traversata Elbana dell’Isola dell’arcipelago toscano, gli atleti hanno incontrato delle scolaresche con cui si è parlato soprattutto dei 5 grammi di plastica che mediamente tutti noi mangiamo in una settimana e dei pesci del “nostro” mare, il 30% dei quali ha la plastica nel corpo. E’ noto il problema della plastica galleggiante degli oceani, ma non si dice che la gran parte della plastica ora è già giù nel fondale.
Lasciata l’Elba, dalla seconda alla quarta tappa la corsa si è svolta in Toscana con partenza fissata dal Comune di Castagneto Carducci. Il tracciato della terza in particolare prevedeva il passaggio a Orciano Pisano, dove è stato trovato un esemplare di balenottera fossile, oggi conservata nel Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze. Quella balenottera racconta di un periodo storico in cui i poli della Terra non erano ghiacciati e si stima ci fossero 450 ppm di CO2 in atmosfera. Oggi ce ne sono 420 di ppm e se non si arrestano le nostre emissioni c’è il rischio di un forte aumento. E’ un rischio per l’uomo perché la nostra specie si è evoluta con una concentrazione di CO2 di 280 ppm e perché l’aumento di concentrazione, a differenza che in passato in cui è avvenuto nel corso di qualche milione di anni, adesso sta avvenendo in qualche centinaio.
Dalla quarta alla sesta tappa la manifestazione sportiva si è svolta in Sardegna, con partenza dal comune di Olbia. Roberto Cavallo e Giulia Vinci sono stati affiancati da Lino Cianciotti e hanno attraversato una terra originale e vera, fatta di cancelli per governare le greggi, ma aperti per i viandanti (a differenza della Toscana) e di pascoli a 600 metri di altitudine che sembrano gli alpeggi alpini a 2000 metri; di fiumi che attraversano versanti ricoperti di sughero e ginepri a creare paesaggi che ricordano scene di film americani. Hanno attraversato la Sardegna ecologica, una terra con le percentuali di raccolta differenziata tra le più alte al mondo, con la produzione di energia rinnovabile, eolica in particolare, tra le più alte in Italia. Qui il rifiuto più abbondante trovato è stato il bossolo da caccia.
Anche quest’anno la Keep Clean and Run ha permesso di incontrare scuole, associazioni sportive, aziende e singoli cittadini, insegnando loro a trovare i rifiuti intorno a noi e a raccoglierli. Bastano infatti un sacco e un paio di guanti per rendere un angolo di mondo più pulito.
Oltre 300 persone hanno partecipato alle azioni di pulizia organizzate nei 41 Comuni attraversati dalla manifestazione, raccogliendo complessivamente più di 223 chilogrammi di rifiuti abbandonati. Allo stesso modo i due runner, accompagnati lungo i sentieri sardi dalla guida naturalistica Lino Cianciotto, hanno accumulato nei 370 chilometri percorsi oltre 150 chilogrammi di littering.
Gli atleti durante la corsa hanno incontrato alcuni scienziati: Silvio Greco, biologo marino dirigente di ricerca della Stazione zoologica A Dohrn, Stefano Dominici, curatore del Museo di Geologia e Paleontologia di Firenze, e infine Antonio Ragusa, primario di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma, autore del libro “Nati con la camicia …di plastica”. Questi incontri hanno permesso di approfondire le tematiche trattate durante la Keep Clean and Run, come lo stato del Mar Mediterraneo, i cambiamenti climatici e l’inquinamento da microplastiche, fornendo nuovi significati e un maggior valore all’approccio scientifico della manifestazione.
Roberto Cavallo al termine dell’ultima tappa ha commentato felice: “La corsa, quella fisica, della Keep Clean and Run è finita. La corsa, quella per eliminare i rifiuti per terra è ancora lunga, e per questo non deve fermarsi. La corsa, quella che ciascuno di noi può fare, deve essere una staffetta, ciascuno a percorrere il tratto che si sente”.
Con l’arrivo nell’incantevole paesaggio di Stintino, dunque, anche l’ottava edizione della Keep Clean and Run è terminata. Ci ha lasciato un messaggio chiaro da diffondere a tutti, perché bastano un sacco e un paio di guanti per rendere un angolo di mondo più pulito.
Aris Baraviera, Milano, 31 maggio 2022.
Riecco la Keep Clean and Run for Peace
Inizia domani l'ottava edizione della Keep Clean and Run, un’iniziativa di sensibilizzazione ecologica e di mobilitazione contro il fenomeno noto come littering, cioè l’abbandono di rifiuti in natura. Il percorso di quest’anno avrà come protagonista assoluto il mare.
L’eco-maratona di plogging più lunga del mondo partirà dall’Isola d’Elba il 29 aprile, attraverserà diversi comuni della Toscana e con tappe da 50km alla volta si chiuderà in Sardegna, il 5 maggio sulle spiagge di Stintino. L’edizione 2022 non si correrà sui luoghi di guerra come lo scorso anno, rimane comunque il suffisso “for Peace” come sensibilizzazione al contesto internazionale attuale. E’ stato durante la manifestazione del 2017 che Roberto Cavallo ha avuto per la prima volta l’idea di una corsa per la raccolta dei rifiuti votata alla pace. Ad ispirarlo furono le parole di Don Pino Demasi, secondo cui “un territorio pulito è in pace”. Sulla base di questa suggestione l’eco-atleta decise di aggiungere al nome Keep Clean and Run l’appendice “for Peace” e dare così vita ad edizioni che calcavano le orme della pace.
Roberto Cavallo, agronomo, saggista italiano, oltre che eco-atleta ha fondato insieme ad altri soci la società cooperativa Erica, tra le prime aziende in Italia ad occuparsi di rifiuti sia in termini di progettazione tecnica che di comunicazione. Dopo aver ricoperto diversi ruoli istituzionali è diventato relatore di convegni italiani ed internazionali. Fra le sue più importanti apparizioni in tv c’è la trasmissione “Scala Mercalli”, dove è stato ospite, interprete e co-autore con il divulgatore scientifico Luca Mercalli.
La Keep Clean and Run ha già acquisito una certa notorietà grazie alle precedenti edizioni:
L’edizione di quest’anno, promossa da AICA (Associazione Internazionale per la Comunicazione Ambientale) in collaborazione e con il patrocinio del Ministero della Transizione Ecologica, prenderà il via dalla spiaggia di Cavo di Rio Marina e attraverserà tutto il territorio lungo la Grande Traversata Elbana fino alla spiaggia di Marciana Marina. Cinquanta chilometri che andranno a toccare tutti i comuni dell’isola. Le altre tappe toccheranno Castagneto Carducci (Livorno), Pomaia (Pisa), Orciano Pisano (Pisa), Pontedera (Pisa), Capannori (Lucca) Olbia, Calangianus (Sassari) Bortigiadas (Sassari), Florinas (Sassari). L’arrivo è previsto per giovedì 5 maggio sulla spiaggia di Stintino (Sassari).
Oltre 400km corsi e camminati con un unico scopo: raccogliere (o documentare) tutta l’immondizia sul percorso e sensibilizzare la popolazione contro il fenomeno del littering, ovvero l’abbandono di rifiuti nell’ambiente.
Come raccontato da Francesco Bruno, nella conferenza stampa moderata da Oliviero Alotto, ogni edizione ha avuto circa 25 milioni di contatti, il seguito di circa 3000 studenti e la partecipazione attiva di almeno 50 co-runner. Nelle scorse edizioni la manifestazione ha ricevuto un importante riconoscimento come la Medaglia della Presidenza della Repubblica.
Il percorso della KCR for Peace quest’anno avrà come protagonista assoluto il mare. Come ricorda Cavallo: “Non tutti sanno che il 75% -80% dei rifiuti in mare proviene da zone lontane dal mare attraverso fenomeni metereologici e corsi d’acqua e che nel mare si accumulano formando il cosiddetto ‘marine litter’. Inoltre sempre più ricerche scientifiche stanno dimostrando che questa strada non sia a senso unico visto che c’è sempre più plastica sia nel cibo che nell’uomo”.
Al centro della Keep Clean and Run non c’è un mare qualsiasi bensì il nostro mare, il Mediterraneo, che rappresenta sì l’1% della superficie marina mondiale ma che, secondo le stime riportate da Cavallo, contiene il 7% della plastica proveniente dai rifiuti che finiscono in tutti i mari. Cavallo ha anche ricordato che l’aumento della temperatura media degli oceani ha spostato più a nord i flussi delle correnti atlantiche che fino a qualche anno fa garantivano un costante ricambio d’acqua nel Mediterraneo.
Come sempre, Roberto Cavallo non raccoglierà rifiuti da solo. Con lui lungo gli oltre 400 km tra Isola d’Elba, Toscana e Sardegna ci saranno due runner d’eccezione: Giulia Vinco, utrarunner e ---limitatamente al territorio sardo -- Lino Cianciotto, guida ambientale e atleta paralimpico.
Giulia Vinco intende la corsa come uno strumento rivoluzionario per cambiare le persone e la società. Quando corre in mezzo alla natura si sente in pace con se stessa e con il mondo. Vorrebbe fare qualcosa di concreto per l’ambiente e per questo la KCR è per lei una grande opportunità.
Lino Cianciotto, sardo d’hoc, 9 anni fa ha subito l’amputazione di un arto a causa di un blocco di roccia che gliel’ha schiacciato. Vuole dare un segnale di carattere e volontà contro l’aumento della plastica nel mare. Cavallo gli ha regalato questa opportunità.
I principali sponsor della manifestazione sono Unicredit, Lucart (che produce carta riciclata), Greentire (si occupa della gestione degli pneumatici fuori uso), Iren (gestore Gas e Luce), Montura (accessori e abbigliamento sportivo).
La tappa della KCR di Orciano Pisano sarà particolarmente importante per il focus sul cambiamento climatico. Orciano è sotto molti aspetti la località delle colline toscane più importante dal punto di vista paleontologico, particolarmente per i resti di vertebrati che comprendono pesci ossei, pesci cartilaginei come gli squali, chelonidi, carnivori come le foche e soprattutto cetacei quali delfini e balene. I fossili trovati qui fanno riferimento ad un’epoca in cui si stima che la temperatura media fosse superiore ad oggi di 6 gradi e il livello del mare più altro di 70 metri.
Roberto Cavallo si augura che anche questa edizione della KCR for Peace possa essere una “spinta dolce” e un buon esempio verso coloro che anacronisticamente e con scarsa educazione civica ed ecologica continuano ad abbandonare rifiuti a terra.
Aris Baraviera, Milano, 28 aprile 2022.
(Nella foto a fianco “LA SMOG ART” dell’artista fiorentino Alessandro Ricci)
Passiamo da un’emergenza all’altra, dalla pandemia alla guerra in Ucraina, mentre già intravediamo i primi segnali di un’incombente catastrofe climatica che potrebbe abbattersi sul nostro pianeta. La transizione economica verso le energie sostenibili rallenta, o perlomeno non sta procedendo alla velocità auspicata e ci sono fenomeni estremi con cui dobbiamo già convivere.
Nelle filiere cinesi si usa più del 40% del carbone utilizzato nella produzione europea e americana. Al di là delle belle parole “Tutti continuano ad usare i combustibili fossili” sostiene Kate Raworth economista dell’Università di Oxford. “Bisognerebbe invece subito riconvertire l’energia e passare alle fonti rinnovabili, ricollocando tutte le persone che operano nella filiera del carbone” dicono il dottor Ajay Gambhir climatologo dell’Imperial College London e Cameron Hepburn, professore di economia ambientale dell’Università di Oxford. Paul Ghilding, ambientalista australiano, ex Università di Cambridge ed ex Greenpeace, che vive in Tasmania, sostiene che “Le catastrofi siano probabili e addirittura il collasso totale sia possibile”. Lui afferma che i combustibili fossili compreso il gas vadano eliminati entro 10 anni e che sia possibile passare subito ad un’energia ecosostenibile.
“Il Covid ha dato la possibilità al mondo di resettarsi ed è arrivato il momento di agire” dice la dottoressa Tamsin Edwards climatologa e giornalista ambientale che vive a Londra.
Vicino ai due poli il cambiamento climatico è più accentuato che altrove. L’Africa è già in parte desertificata. In California le piogge autunnali arrivano sempre più tardi e allungano di fatto le estati. La vegetazione si inaridisce sempre più e con il forte vento si creano le condizioni per incendi sempre più devastanti. Ogni anno è peggio di quello precedente. Il 2020 è stato un anno terribile, così come il 2018 caratterizzato dal famoso incendio del “Paradise California”, il più grande di sempre in quella zona del mondo. In Australia nel 2019-2020 si è verificata una serie di incendi boschivi che hanno devastato parte dell’Australia sud-orientale; in particolare gli Stati federati maggiormente colpiti sono stati Vittoria e Nuovo Galles del Sud. Stanno aumentando anche le cosiddette “bombe d’acqua”, ovvero le piogge estreme, perché più si alzano le temperature e più aumenta il vapore acqueo, quindi i forti acquazzoni e gli eventi estremi. La tempesta Vaia è stata un evento meteorologico estremo che ha interessato il nord-est italiano dal 26 al 30 ottobre 2018 con un vento di scirocco a velocità “uragano” che ha abbattuto 15 milioni di alberi. Sulle nostre Dolomiti gli effetti sono stati ben visibili. Secondo la dottoressa Sarah Kapnick, Managing Director e Climate Scientist for the Strategy & Business Development Organization “Si è innescato un meccanismo vizioso dal quale sarà difficile uscire”.
Viviamo nell’epoca che viene definita Antropocene, che viene dopo l’Olocene. L’Olocene iniziato circa 11.500 anni fa dopo la fase della glaciazione della Terra è terminato circa 20 anni fa, attorno all’anno 2000. Quello di Antropocene è un concetto coniato da Paul Jozef Crutzen, premio Nobel per la chimica nel 1995 e che vede il pianeta condizionato dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all’aumento delle concentrazioni di anidride carbonica e metano nell’atmosfera. Nel 2019, dopo 10 anni di osservazioni e studi, la teoria di Crutzen viene confermata da uno studio pubblicato dalla rivista “Bioscience” e sottoscritto con un appello di 11.258 scienziati di 153 differenti nazioni. I risultati dello studio purtroppo non hanno fatto più di tanto breccia nell’opinione pubblica. Il segretario dell’Onu António Guterres più volte ha ripetuto che “L’atteggiamento umano deve cambiare perché sono possibili imminenti forti cambiamenti climatici ed estinzioni di massa”. Questi appelli spesso cadono nel vuoto e solo il quotidiano inglese The Guardian li ripropone costantemente.
In un certo senso anche la pandemia in corso ci dice che c’è una sistematica violazione degli ecosistemi, ma si parla poco di rapporti tra uomo e pianeta. Parliamo soprattutto di crescita, ma crescita significa consumo di risorse della Terra e produzione di rifiuti. In 10.000 anni o poco più il nostro pianeta è passato da una popolazione di circa 5 milioni a quasi 8 miliardi. Le immagini che riceviamo dai satelliti da circa 60 anni ci mostrano chiaramente quello che sta succedendo.
Semplificando possiamo dire che le catastrofi già in atto sono le seguenti:
Le altre emergenze sono:
L’acidità dei mari colpisce soprattutto le barriere coralline. Con 1,5 gradi in più perderemmo il 90% delle barriere coralline esistenti oggi. Con due gradi in più addirittura fino al 99%.
Il Permafrost, terreno tipico delle regioni fredde come la Siberia e l’America settentrionale dove il suolo è perennemente ghiacciato, potrebbe librare nell’aria quantità impressionanti di gas a effetto serra. Nella regione dello Svalbard, in Norvegia, il luogo abitato più a nord, a poche centinaia di km dal Polo Nord abbiamo avuto una crescita media di 6 gradi in 50 anni. Mai come in questo luogo il ghiaccio si sta sciogliendo. La desertificazione di zone della foresta amazzonica è sempre più visibile e fa aumentare l’anidride carbonica già presente nell’atmosfera. Le calotte della Groenlandia se dovessero collassare farebbero innalzare subito i livelli marini. Questi sono tutti punti di non ritorno.
Con l’effetto serra creato dall’intervento dell’uomo rischiamo di portare la Terra ad essere un pianeta non più adatto alla vita. Noi crediamo di governare o di saper governare il pianeta, ma sarà lui tra poco che ci farà sentire bene che questo non può essere vero. Non c’è mai stata tanta anidride carbonica nell’atmosfera come oggi. Bisogna fermare assolutamente questa tendenza. La temperatura è cresciuta di più di 1 grado in un secolo. I ghiacciai si sono già ridotti del 50%. Alcuni ghiacciai alpini non esistono più. Secondo il professor Andrew Sheperd dell’Earth and Environment dell’Università di Leeds “Dagli inizi degli anni Novanta la Terra ha perso 28.000 miliardi di tonnellate di ghiaccio”. Non è solo l’aumento della temperatura che incide sui ghiacciai. In Canada come nelle Ande, in Groenlandia e nell’Himalaya la fuliggine rende sempre meno riflettenti e bianchi il ghiaccio e la neve che di conseguenza assorbono calore e si sciolgono con maggior facilità.
Le simulazioni dell’IPCC ONU (Intergovernative Panel On Climate Change) ci dicono che abbiamo due scenari, uno accettabile e uno catastrofico. Il livello accettabile considera che entro il 2100 la temperatura della Terra rimarrà entro 2 gradi d’aumento, l’altra di 5 gradi. Se non controlliamo nulla possiamo quindi salire fino a 5 o addirittura 7 gradi. La Pianura Padana nello scenario peggiore avrebbe un aumento di 8 gradi in estate con una progressiva desertificazione del suo territorio. Lo scenario prudente vede l’aumento del livello del mare di mezzo metro, lo scenario peggiore di più di un metro con Venezia che a fine secolo sarebbe inabitabile. Nel 2300 l’acqua degli oceani sarà cresciuta di 5 metri in più del livello attuale. Se invece riusciamo a limitare l’aumento della temperatura il mezzo metro dovrebbe stabilizzarsi. Ricordiamo che nell’arcipelago delle Isole Salomone, nel Pacifico, già 5 isole sono finite completamente sott’acqua e altre 6 hanno perso grandi porzioni di terre a partire dall’anno 2000.
Nel 2003 in Europa c’è stata la famosa estate tropicale che ha fatto decine di migliaia di morti tra fine di luglio e inizio di agosto.
L’india sarà inabitabile nel 2070 se non si interviene subito. Si ipotizza che dovranno muoversi e lasciare il loro paese circa 3,5 miliardi di persone. La dottoressa Tamsin Edwards climatologa del King’s College London dice che “La mancata presenza di acqua potrebbe colpire almeno due miliardi di persone”. Nel Bangladesh vicino al delta del Gange, nel Sundarbans, luogo che è un labirinto di corsi d’acqua e isole con la più grande foresta di mangrovie del mondo, abbiamo una quotidiana perdita di terreni agricoli dovuta ai cicloni tropicali sempre più frequenti e all’innalzamento del livello dell’acqua del mare. La regione sta per essere abbandonata poiché molte persone da qui si trasferiscono ogni giorno verso la capitale Dacca. In dieci anni la popolazione della capitale è passata da 10 a 20 milioni di persone. Il traffico è sempre più caotico e la colonna sonora della città è quella dei clacson delle automobili.
L’IPCC ci dice che si stanno estinguendo specie viventi come non succedeva prima. Nel 2019 è stato lanciato un allarme che è rimasto inascoltato relativo al rischio che stanno correndo 1 milione di specie di forme di vita. La plastica impazza ormai indisturbata negli oceani. Nell’isola di Heron in Australia le tartarughe verdi non riescono ad adattarsi alla velocità del surriscaldamento della sabbia. Il 99% delle nascite sono femmine per il caldo che determina il sesso delle uova. L’estinzione della specie è dietro l’angolo.
Economia e politica dovrebbero occuparsi di queste emergenze, mentre gli articoli che escono su “Nature” (forse in assoluto la rivista considerata di maggior prestigio nell'ambito della comunità scientifica internazionale) a volte passano sotto silenzio. Il divario tra politica e scienza è ciò che vuole mostrare la ragazzina svedese Greta Thunberg.
A fine 2019 il pacchetto European Green Deal viene annunciato ed è l’unico progetto veramente coerente con la crisi ambientale in corso. E’ solo sulla carta e bisogna vedere come si declinerà. Punta a rendere neutrale gli impatti entro il 2050. Per ora è stato offuscato da altre emergenze.
L’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA- European Environment Agency) nel gennaio 2021 ha finalmente esplicitato che l’obiettivo delle crescite economiche misurato con il P.I.L. è incompatibile attualmente con la crisi ambientale in atto. La crescita dei consumi così come la conosciamo ora è il vero problema. Il consumismo che fa girare l’economia è il vero responsabile di quello che sta succedendo. E il vero problema culturale è che non c’è tempo per fermare la crisi ambientale se non fra qualche decina di anni. Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006, economista e banchiere, sostiene che dobbiamo introdurre il social business e dargli vera dignità. Secondo lui “Il capitalismo ci dice erroneamente che il mondo è guidato da interessi personali. In realtà nella vita umana c’è anche una forte componente di interesse collettivo che va ascoltato e sviluppato”. Il professor Jason Hickel antropologo economico sostiene che “Il PIL non è più adatto a rappresentare il successo economico di un paese: bisogna introdurre dei fattori di rettifica e ripensare i modelli”.
La pandemia ha ridotto l’anidride carbonica del 6,5% nel 2020 (7% secondo altre fonti). Nei primi mesi c’era stata una flessione del 17%, poi si è avuto un recupero.
Luca Mercalli, metereologo e divulgatore scientifico dice che la vera rivoluzione purtroppo deve iniziare subito, prima che sia troppo tardi, e che ognuno di noi deve impegnarsi puntando su questi pilastri:
“Ci sarebbe un metodo per diminuire la temperatura” dice la climatologa e ricercatrice Corinne La Quéré dell’Università dell’EastAnglia, “Ma sarebbe troppo rischioso immettere zolfo nell’atmosfera per riflettere i raggi solari, perché non si conoscono i possibili effetti collaterali”. Un altro metodo per diminuire la temperatura sarebbe quello di catturare l’anidride carbonica presente nell’atmosfera mineralizzandola e immagazzinandola nelle rocce o sottoterra. Bisognerebbe però disporre di decine di migliaia di questi impianti che oggi sono invece presenti in poche unità.
Coopenaghen è tra le città top nel green e si è assunta l’impegno di ridurre le emissioni a zero entro il 2025. La centrale energetica della città è il simbolo della rivoluzione ecologica con il boom di biciclette, di barche elettriche e di nuovi alimenti che stanno tentando di sostituire il consumo di carne. Dal punto di vista delle abitazioni è Stoccolma che guida invece le proposte sul risparmio energetico e l’ecosostenibilità dell’energia.
Una cosa che sicuramente bisognerebbe fare sin d’ora è iniziare a piantare miliardi di alberi in tutto il mondo. La cosa più urgente però è conservare quelli che già ci sono e fermare la deforestazione. “Ci vogliono decenni prima che una foresta inizi ad assorbire anidride carbonica” dice Simon Lewis professore di Scienze all’University College London. “E anche la vegetazione in decomposizione rilascia CO2”. Gli alberi andrebbero piantati soprattutto nei paesi tropicali dove possono crescere velocemente, oppure in Russia e in Usa dove ci sono grandi spazi e dove è possibile farlo. La kelp gigante della Tasmania, un’alga che cresce velocemente e che immagazzina molta anidride carbonica, è in pericolo a causa dell’aumento della temperatura dell’acqua e dell’aumento dei ricci che si cibano della pianta stessa. Si stanno cercando delle soluzioni per farla prosperare.
In Svezia vengono fatti dei massicci innesti di torba nel terreno. Il muschio di torba e le torbiere in genere sono dei veri e propri magazzini di carbonio quando crescono in zone allagate dall’acqua.
Il Bhutan è sicuramente il paese modello a cui dovremmo aspirare. Qui le emissioni di carbonio sono bassissime e lo sviluppo è rallentato proprio per la salvaguardia dell’ambiente. La costituzione della piccola monarchia prevede che le piante siano protette e che ove possibile se ne piantino di nuove. Nonostante questo purtroppo nel Bhutan negli ultimi 10 anni la temperatura è aumentata di diversi gradi mettendo in pericolo molti ghiacciai e laghi glaciali. Evidentemente qui si pagano colpe di attività umane compiute ad altre latitudini del globo.
Aris Baraviera, Milano, 14 marzo 2022.
DOVE ERAVAMO RIMASTI
La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021 (COP 26) tenutosi a Glasgow lo scorso novembre ha riacceso l’attenzione dei media sui temi ambientali. L’emergenza in corso della pandemia mondiale aveva praticamente oscurato le altre emergenze tra cui quella più grande che incombe sul nostro futuro: il riscaldamento dell’atmosfera terrestre.
Tutti noi ricordiamo le manifestazioni ambientaliste chiamate “Fridays for future” che hanno caratterizzato l’intero anno 2019 e che si erano poi bruscamente interrotte il 6 marzo del 2020 quando a Bruxelles si era svolto l’ultimo “sciopero climatico”, con una grande manifestazione guidata da Greta Thunberg. Due giorni prima Greta era stata invitata al Parlamento Europeo per discuter dei temi del Green Deal e delle azioni necessarie per arrivare entro il 2050 all’azzeramento delle emissioni di CO2 da parte dei paesi europei. Poco prima, a gennaio, la ragazza svedese aveva partecipato al 50mo Forum Mondiale di Economia dove aveva chiesto a tutti i partecipanti l’immediato abbandono di ogni investimento nell’estrazione e nell’utilizzo di combustibile fossile.
Nel corso del mese di dicembre del 2019, Greta aveva presenziato alla Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP25) che si era svolta in Spagna, ma che inizialmente era prevista in Cile. Lo spostamento in Europa era stato deciso dopo lo scoppio di disordini a Santiago per l’aumento del prezzo dei trasporti pubblici, verificatesi quando Greta si trovava già nel nuovo continente e in particolare a Edmonton, in Canada, dove operano i più grandi gruppi petroliferi e dove la temperatura sta aumentando più che in altri posti del mondo. Greta da lì aveva dovuto ri-partire in fretta per Madrid viaggiando con il padre dalla Virginia a Lisbona a bordo di un catamarano (come noto lei non utilizza l’aereo). Un viaggio durato 20 giorni e reso ostico da diverse tempeste atlantiche. Arrivata poi a Lisbona aveva raggiunto la capitale spagnola in treno.
Greta già qualche mese prima aveva iniziato il suo anno sabbatico lontano dagli studi e si era già recata in Polonia per incontrare i minatori polacchi di Slesia, dove il carbone viene estratto da 800 anni ed era stata inoltre a Belchatow, sempre in Polonia, dove è situata la centrale elettrica a carbone più grande d’Europa.
Prima ancora, precisamente il 23 settembre 2019, Greta aveva parlato al palazzo delle Nazioni Unite di New York dopo aver raggiunto gli Stati Uniti con un lungo viaggio in barca – ovviamente stavolta in senso contrario. Sempre nella Grande Mela, due giorni prima, aveva presenziato all’Assemblea del clima della Gioventù Onu, in Times Square, dove si era svolta anche una grande manifestazione per lo “sciopero climatico”.
Sarebbe riduttivo però parlare solo di Greta quando si cita il movimento “Fridays for future”, cioè quella azione isolata della ragazzina di Stoccolma che nel giro di pochi anni si è via via trasformata in un movimento ambientalista, in cui oggi si riconoscono più di 15 milioni di persone e in prevalenza giovani. Un movimento privo formalmente di leaders in cui spiccano però Luisa Neubauer (25 anni) di Amburgo, Felix Finkbeiner (24 anni) di Monaco di Baviera, Nike Mahlhaus (29 anni) di Berlino, Zion Lights (38 anni) del West Midlands (UK), Marcella Hansch (36 anni) di Arnsberg (Germania), Vic Barrett (21 anni) di New York.
Il movimento si era affermato organizzando cortei coreografici in cui veniva rappresentata la morte della natura. Poi le manifestazioni divenute imponenti sono state marcatamente caratterizzate dai cosiddetti “scioperi climatici”, con l’evidente richiamo alle prime azioni isolate di quando Greta nel 2018 (appena 15nne) si posizionava davanti al Riksdag, il parlamento svedese. I cortei più imponenti si erano avuti a Berlino nel corso del 2019: il 25 gennaio, il 29 marzo, il 16 luglio e il 7 ottobre, ma anche in altre città tedesche, oltre che in tutte le principali città del mondo occidentale.
Gli sforzi dei movimenti ecologisti supportati dalle evidenze emerse dal mondo scientifico hanno portato grandi risultati nelle politiche ambientali e hanno promosso una crescente sensibilizzazione in tale ambito. Le prime associazioni con lo scopo di proteggere l’ambiente nacquero negli anni Cinquanta. I primi movimenti organizzati politicamente presero piede invece negli anni Settanta, a seguito della pubblicazione della foto nota come Biglia Blu scattata da Apollo 17 (foto a fianco dell’articolo) che creò una coscienza ambientalista ed ecologista globale.
Ormai quasi tutte le nazioni ammettono l’importanza dei temi ambientali, l’utilità di strategie economiche sostenibili e rispettose dell’ambiente. Tuttavia i problemi che l’attualità ci pone sono molto complessi e controversi e vanno dal riscaldamento globale allo sviluppo demografico, dalla carenza di risorse energetiche alla scomparsa delle biodiversità. Dallo smaltimento dei rifiuti all’inquinamento dovuto alla plastica. Negli anni, l’ambientalismo ha sollevato importanti tematiche quali la proliferazione delle armi nucleari e l’uso dell’energia nucleare durante gli anni Settanta, le piogge acide negli anni Ottanta, la deforestazione e il buco nell’ozono negli anni Novanta.
Dopo il primo Summit della Terra tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992, e il Protocollo di Kyoto del 1997 (entrato in vigore nel 2005), gli accordi di Parigi del 2015 rappresentano il terzo grande evento internazionale in ordine cronologico per la salvaguardia del clima sul nostro pianeta. Ricordiamo che gli accordi stabiliscono un quadro globale per evitare pericolosi cambiamenti climatici, limitando il surriscaldamento del pianeta ben al di sotto dei 2 gradi rispetto al periodo pre-industriale (attualmente la temperatura è già salita di 1,2 gradi). L’obiettivo di lungo termine invece è proseguire con gli sforzi per limitarlo a 1,5 gradi.
Aris Baraviera, Milano, 4 febbraio 2022.
L’intervista a Roberta Mattioli in arte “Pucca”
AB: “Chi è Pucca?”
Roberta: “Pucca è un clown di corsia che svolge l’attività negli ospedali, negli hospice e nelle case di riposo. A Milano la puoi incontrare ad esempio in strutture come la Clinica De Marchi, l’ospedale Fatebenefratelli e l’ospedale pediatrico Buzzi. Il suo impegno in corsia è pari a 2 weekend al mese, poi ha le due sere mensili di allenamento. L’intensità dell’impegno però varia a seconda del periodo e aumenta quando ci sono le raccolte di fondi”.
AB: “Chi è Roberta?”
Roberta: “Beh, è colei che da 9 anni dà vita a Pucca. Nata a Milano nel 1967 è vissuta fino a 30 anni a Limbiate, poi a Nova Milanese e ora a Cambiago. Lavora come impiegata presso uno studio notarile in Brugherio, dopo aver lavorato per tanti anni a Milano.
Visto che voi scrivete di running e di trekking, voglio dirvi subito che non pratica sport anche perché non è mai riuscita a gestire l’ansia da competizione (RIDE). Quando va in montagna ama fare delle lunghe passeggiate, ma mai trekking. Ama le montagne, ma non le vette elevate. Predilige le colline verdi, infatti il suo posto ideale è Castello dell’Acqua, un piccolo comune della provincia di Sondrio situato ad un’altezza di 650 metri. Vi dico anche che Roberta è una persona golosa e per lei la vita come metafora è un pandoro da mordere”.
AB: “Come si diventa clown di corsia?”
Roberta: “Il corso base si svolge in un weekend intenso. L’associazione ‘Dutur Claun’ si avvale di professionisti esterni. Nel primo anno di attività c’è un tutore di corsia che affianca le figure junior. La formazione è praticamente continua e non è mai lasciata al caso. Facciamo giochi per allenare l’attenzione e l’osservazione, poi c’è la parte relativa a manualità e praticità. Noi puntiamo anche sull’improvvisazione e lasciamo spazio al laboratorio teatrale perché quando apri la porta di una corsia di ospedale non sai mai le situazioni che trovi e l’aria che tira … A volte capita anche di dover consolare un genitore in sala d’aspetto quando fai reparti come la terapia intensiva.
Fare il clown è bello e serio. Molti credono di poterlo fare perché ritengono di essere divertenti, cioè spesso se lo sentono dire da chi gli sta intorno, ma non basta avere attitudine ed empatia, perché dietro a quei cinque minuti di show c’è tanta fatica, sacrificio e soprattutto tanto lavoro. E la consapevolezza del lavoro è l’elemento che più mi gratifica. Purtroppo molti lasciano quando scoprono il vero livello di questo impegno”.
AB: “Qual è l’obiettivo principale del clown di corsia?”
Roberta: “Cerchiamo di strappare un sorriso… e diamo anche la possibilità di farci chiudere la porta in faccia, che non è un dono di poco conto. Con l’Associazione ‘Altri Clown’ seguo dei malati oncologici e incontro bimbi che devono ricevere continue terapie da parte di infermieri e medici e magari hanno assunto molto cortisone e sono nervosi, oltre che sofferenti. E quando arriva ‘la pirla’ con il naso rosso che cerca di farli ridere non sempre la prendono bene. A volte urlano che non ci vogliono e per noi è importante aver donato loro anche questa possibilità, cioè la possibilità di rifiutarci, di negarsi. Loro purtroppo non possono permettersi di respingere le persone che gli praticano le cure e per questo è molto importante il nostro dono, che consiste appunto nella possibilità di poter esplicitare un no”.
AB: “Conosci la storia di Pach Adams?”
Roberta: “Sì certo è considerato l’inventore dalla clownterapia e l’ho visto nel 2015 al Teatro Manzoni di Milano. E’ un personaggio straordinario con una filosofia di vita pazzesca! Lui definisce buffa la sua vita, ma non nel senso in cui si usa oggi questa parola, ma nel senso originario dove ‘buffo’ significa portatore di gioia.
Di quella sera ricordo che ha raccontato degli episodi di bimbi malati e violati incontrati in giro per il mondo. Ricordo bene quei discorsi perché anche a me è capitata l’esperienza di venire a contatto con un bimbo che aveva subito delle violenze. E’ una cosa che non accetti e infatti ci ho messo del tempo a metabolizzare l’esperienza di quell’incontro. Tornando al personaggio ricordo che quella sera aveva commentato anche il film a lui dedicato interpretato da Robin Williams nel 1998. Diceva che era un’opera romanzata, ma piuttosto fedele alla realtà. Nel film muore la fidanzata mentre nella realtà muore l’amico. Sta in questo la differenza.”
AB: “Qualche domanda piuttosto personale adesso: che scelte rifaresti della tua vita?”
Roberta: “Beh certamente la scelta di fare Pucca perché mi ha cambiato la vita. E’ stata formativa in quanto mi ha costretto a guardarmi dentro, a lavorare su me stessa e a mettermi in discussione”.
AB: “Mi parli dei tuoi pregi e difetti e soprattutto dei tuoi sogni?”
Roberta: “Penso di essere abbastanza generosa come persona, perché donare il tempo è un regalo prezioso. Sogni? Vorrei tanto andare a vivere in un posto tranquillo. E poi sogno di intraprendere un progetto di pet-teraphy e clown-terapy perché non farò il clown in eterno …
Adesso parliamo dei miei difetti: mettiti comodo senza guardare l’orologio!” (RIDE DI GUSTO)
AB: “Alcune persone che ti conoscono hanno usato questi aggettivi per descriverti: sensibile, educata, discreta, intelligente, umile, sognatrice, riflessiva, serena, tranquilla. Che ne pensi?”
Roberta: “Sensibile sì, educata spero, discreta penso di sì, intelligente lascio giudicare gli altri, umile sì nel senso che cerco di stare al mio posto, sognatrice ci puoi giurare, riflessiva sì, serena non saprei …alti e bassi, tranquilla … mmh su questo ho più di un dubbio. Diciamo che l’apparenza a volte inganna”. (SORRIDE E SALUTA CON LA MANO)
Aris Baraviera, Milano, 8 dicembre 2021.
Roberta Mattioli in arte “Pucca” alla StraMilànCanina
AB: “Roberta, come è stata la StraMilànCanina dello scorso ottobre?”
Roberta: “E’ stata una bella manifestazione caratterizzata dalla presenza di tante persone, anche se non so dirti il numero esatto degli iscritti. L’evento si è svolto in due distinti giorni: sabato in cui il tempo è stato bello, domenica invece così e così. Ti segnalo la partecipazione di Susanna Messaggio, noto personaggio televisivo, e di Roger Mantovani doppiatore di successo, conduttore radiofonico e voce ufficiale delle associazioni <Il Collare d’Oro> e <Dutur Claun>”.
AB: “Tu hai partecipato come Roberta o eri nelle vesti di <Pucca>?”
Roberta: “Ero lì con il team di volontari clown e quindi come associazione Dutur Claun, cioè come Pucca. Prima della partenza abbiamo organizzato un po’ del cosiddetto ‘riscaldamento umoristico’, cioè abbiamo fatto quello che facciamo ogni anno nel corso della Stramilanina -- la corsa breve dei 5km che si svolge all’interno della manifestazione Stramilano -- dove cerchiamo per quanto ci sia possibile di caricare di allegria tutti i partecipanti”.
AB: “Com’è stata la corsa dei cani?”
Roberta: “La corsa è stata molto simpatica, originale e organizzata bene. I concorrenti partivano a scaglioni: prima i grandi, poi i medi e poi i piccini. Anche la premiazione è stata fatta per categorie distinte. (Roberta fa una pausa come se stesse riflettendo) Mi ha fatto molta tenerezza un simpaticissimo ragazzino che è arrivato ultimo perché non ha voluto forzare il passo del suo chiwawa, e si è adeguato completamente all’andatura del piccolo animale. Il suo arrivo al traguardo è stato un momento di grande gioia e tenerezza!” (Sorride)
AB: “Abbiamo capito che tu sei amica del presidente dell’Associazione Il Collare d’Oro: è davvero così?”
Roberta: “Sì, Gianfranco (Cancelli NDR) l’ho conosciuto 7 anni fa quando avevo un problema con il mio cane Bum Bum. Problema poi risolto in una settimana. All’epoca lui non era ancora il presidente dell’Associazione ma era un addestratore cinofilo. Organizzava anche gare di agility dog, che è quello sport cinofilo simile al percorso ad ostacoli ippico, dove il cane deve percorrere nel minor tempo possibile e senza penalità un determinato circuito”.
AB: “Qual è la cosa che più distingue l’Associazione?”
Roberta: “Beh, sono partiti col piede giusto. Scelgono cuccioli che praticamente crescono con le famiglie e con i bambini che hanno bisogno di loro. Così facendo il rapporto tra cani e bambini diventa sempre più forte e importante. E questo l’ho visto chiaramente quando ho seguito le loro sessioni formative al campo di Brugherio, dove ho visto i primi quattro cani.
Ci sono anche progetti con cani che arrivano dal canile, ma il percorso diventa più tortuoso perché ci si può imbattere anche in animali che non stanno bene fisicamente, che hanno avuto storie complicate o sono stati maltrattati. Con i cani di allevamento invece è più semplice conoscere lo stato psico-fisico dell’animale. Vorrei segnalare che l’Associazione sarà presente a Vicenza il 20 e 21 novembre in occasione dell’evento Quattrozampeinfiera”.
AB: “Quali sono le razze canine che vengono maggiormente utilizzate per la terapia?”
Roberta: “Direi il Golden Retriever e il Flat-Coated Retriever. Entrambi sono molto intelligenti. (Sorride e sembra distrarsi) Stavo pensando a quanto è carino il cane Marley che è stato consegnato da poco ad una piccola bimba con cui sta facendo formazione”.
AB: “Che esperienza utile ti sei portata a casa con la StraMilànCanina?”
Roberta: “Io personalmente ho tratto un grande arricchimento nel conoscere le famiglie dei ragazzi che vengono seguiti dall’Associazione. E’ come se fossero arrivate le parole giuste al posto dei puntini di sospensione che c’erano prima. Come se tutto, improvvisamente, avesse acquisito più senso … perchè ho scoperto che dietro a grandi problemi ci sono grandi famiglie”.
AB: “Proseguirà il binomio Il Collare d’Oro e Dutur Claun?”
Roberta: “Il binomio delle due associazioni ha avuto come significato il voler mettere assieme pet-therapy e clownterapia ed è un’idea che abbiamo avuto Gianfranco (il presidente de Il Collare d’Oro) ed io. La StraMilànCanina ha visto concretizzarsi quindi questa cooperazione che spero possa diventare sempre più un binomio vincente. Per il futuro una collaborazione strutturata e duratura sarebbe davvero un sogno...“
Aris Baraviera, Milano, 18 novembre 2021.
Il 2 e 3 ottobre Quattrozampeinfiera ospita la StraMilànCanina 2021
I cani amano stare all’aperto specialmente in compagnia del loro padrone e hanno bisogno di esercizio fisico quotidiano. Alcuni riescono addirittura a tenere il passo dei migliori maratoneti o dei professionisti dell’ultra trail, allenandosi al fianco dei propri padroni arrivando alla fine delle gare con più energia residua rispetto agli atleti. La loro capacità di correre dipende dalla razza, dall’età e dalla salute. Come regola generale, più è grande il cane più saprà correre a lungo, e più è magro tanto più sarà veloce. Naturalmente ogni cane è diverso, anche tra individui della stessa razza, quindi è importante valutare il livello delle sue abilità. In ogni caso i runner che amano correre in compagnia del cane dovrebbero prendere in considerazione l’evento in programma il prossimo weekend a Milano.
Quattrozampeinfiera ospita la StraMilànCanina 2021, una manifestazione sportiva dedicata ai corridori amatoriali e professionisti che vogliono gareggiare con il loro amico a quattro zampe. L’evento è interamente organizzato dall’Associazione Il Collare D’Oro. L’Associazione Il Collare d’Oro (Associazione Nazionale Cani d’Assistenza), grazie ad un Team di volontari ed esperti, supporta le persone con disabilità e difficoltà di varia natura, grazie all’aiuto dei cani d’assistenza. L’associazione si occupa dell’addestramento dei cani e della formazione del proprio staff, attraverso corsi sull’educazione cinofila e collabora con istituzioni per introdurre una certificazione che permetta di riconoscere ufficialmente anche nel nostro paese i cani d’assistenza.
I partecipanti all’evento sportivo con il loro amico a quattro zampe correranno lungo un percorso di 4,5 km che si terrà il 2 e il 3 di ottobre all’evento “Quattrozampeinfiera”, all’interno del Parco Esposizioni di Novegro. Il costo della StraMilanCanina 2021 è di 10€ al quale va aggiunto il costo di ingresso alla fiera.
Gli interessati al progetto potranno ISCRIVERSI alla corsa direttamente il giorno della gara oppure attraverso il sito ufficiale dell’associazione Il Collare d’Oro al seguentelink:
https://www.associazioneilcollaredoro.it/iscrizione-stramilancanina-2021 , pagando con Paypal o bonifico bancario e aggiudicarsi così in omaggio un gadget dell’Associazione.
Il ricavato servirà a sostenere l’acquisto di un furgone utile all’Associazione e a promuovere il progetto del riconoscimento dei cani d’assistenza per ogni forma di disabilità.
L’evento avverrà all’interno della manifestazione di QUATTROZAMPEINFIERA al Parco Esposizioni di Novegro, con obbligo di acquisto del tagliando d’ingresso.
COSTO BIGLIETTI PARCO ESPOSIZIONI (obbligatorio)
Biglietto online € 7
Buono sconto € 8
Biglietto intero € 11
Bambini (fino ai 10 anni non compiuti), cani e gatti INGRESSO GRATUITO
LINK PER ACQUISTO BIGLIETTI PARCO ESPOSIZIONI :
https://parcoesposizioninovegro.it/biglietti/quattrozampeinfiera/?tickets_process=#buy-tickets
OBBLIGATORIO GREEN PASS.
I cani amano stare all’aperto specialmente in compagnia del loro padrone e hanno bisogno di esercizio fisico quotidiano. A loro non importa se piove o se fa freddo. Vogliono correre sempre e comunque.
Quale occasione migliore di questa per loro e per i loro padroni?
Aris Baraviera, Milano, 30 settembre 2021.
Stiamo archiviando una delle estati sportive più belle di sempre
Travolti dalla paura, rinchiusi tra le nostre quattro mura a combattere una battaglia durissima perché imprevedibile, per mesi e mesi non abbiamo potuto nemmeno avvicinarci a persone che avremmo voluto avere sempre accanto. Poi però è arrivata l’estate del 2021, la pandemia non avrebbe voluto darci tregua, eppure le emozioni senza confine che lo sport con le sue eroiche imprese è ancora capace di produrre ci hanno fatto riscoprire la bellezza di poterci abbracciare, una specie di esorcismo affettuoso contro il buio interiore provocato dal coronavirus.
Prima la vittoria italiana agli Europei di calcio, con l’abbraccio tra Mancini e Vialli che resterà nella memoria collettiva del nostro Paese. Poi quell’1 agosto alle Olimpiadi che ha riscritto lo sport italiano, con l’abbraccio tra Jacobs e Tamberi che ha suggellato il giorno più bello per l’Italia in 125 anni di Giochi. Due ori che non ci aspettavamo, in una disciplina come l’atletica, che aveva regalato nelle ultime edizioni delle Olimpiadi più delusioni che gioie. In tutto dieci medaglie d’oro, dieci d’argento e venti di bronzo. Un successo olimpico davvero inatteso.
Le medaglie d’oro sono quelle che più ci hanno emozionato: Vito Dell’Aquila (taekwondo categoria -58) Federica Cesarini e Valentina Rodini (canottaggio categoria doppio pesi leggeri), Gianmarco Tamberi (salto in alto), Marcel Jacobs (100 metri), Caterina Banti e Ruggero Tita (vela, Nacra 17) Simone Consonni, Filippo Ganna, Francesco Lamon e Jonathan Milan (ciclismo su pista, inseguimento a squadre), Massimo Stano (marcia 20 km), Antonella Palmisano (marcia 20 km), Luigi Busà (karate, kumitè 75kg), Marcel Jacobs, Lorenzo Patta, Fausto Desalu e Filippo Tortu (staffetta maschile 4x100).
Adesso se pensiamo a Jacobs ci viene voglia di correre. Correre a perdifiato. Ci vien voglia di imitarlo e di provare, se possibile, un po’ delle sue emozioni. I meno giovani tra noi hanno certamente rievocato l’impresa di Pietro Mennea del 1979, anche se in Jacobs non c’è il tratto di sofferenza che aveva Mennea. Anzi c’è sempre un’espressione di serenità che esplode spesso in un bellissimo sorriso.
Il poliziotto del Lago di Garda per riuscire nell’impresa si è superato. E’ arrivato là dove nemmeno i più ottimisti avrebbero potuto credere. Neppure chi lo segue sin dai suoi primi passi e ne conosce le sue capacità avrebbe immaginato un giorno così, sublimato dal trionfo di poco prima di “Gimbo” Tamberi nel salto in alto.
Le urla che a distanza di un mese forse rimbombano ancora in quello stadio vuoto sono di Gianmarco Tamberi, il nuovo campione olimpico del salto in alto che con tenacia è volato sopra le stelle a prendersi un oro dopo una finale splendida, di ottimo livello tecnico. Una finale risolta con un ex aequo, dopo tre tentativi falliti dei due atleti rimasti in gara di superare l’asticella a 2,39. Il regolamento della Federazione internazionale prevede infatti che in casi di questo genere gli atleti possano decidere. Se c’è accordo, bene. In caso contrario prevale l’opinione di chi vuole continuare e, se l’altro non rinuncia, si va a spareggio. Barshin e “Gimbo” si sono capiti al volo e si sono divisi l’oro salendo sul podio insieme, dopo che entrambi avevano subìto gravissimi infortuni ai legamenti. Dopo il podio ricordiamo soprattutto la festa di "Gimbo", che con il fuoco che gli ardeva nel cuore non ha avuto paura di mostrare i sentimenti più nobili.
Questa estate che sta per finire ci ha mostrato che quando noi italiani sappiamo sentirci una comunità in cui esiste il mutuo sostegno e quando viviamo così lo sport, non abbiamo limiti; possiamo saltare più in alto di tutti e correre più veloce di tutti. Così come possiamo vincere un campionato di calcio dopo cinquant’anni. Come prova del nove citiamo il fallimento della scherma italiana che ha invece evidenziato vecchi rancori che hanno minato il gruppo.
Sappiamo esaltarci quando le cose si fanno più difficili, anche se non esiste ovviamente un rapporto meccanico tra i risultati sportivi e lo stato del Paese. Eppure spesso è così e non è frutto del caso. Con questi ragazzi, come Marcell e Gianmarco, figli dell’Italia di oggi, con la loro aria scanzonata, abbiamo vissuto un’estate sportiva che avremmo voluto non finisse mai. L’allegria gentile dei vincitori e l’assenza di autocelebrazione hanno mostrato che nel dolore l’Italia ha riscoperto valori importanti che non ricordava di avere.
Aris Baraviera, Milano, 2 settembre 2021.
Analisi dell’edizione 2021 della Keep Clean and Run
Lo scorso aprile si è svolto il Keep Clean and Run for Peace, da Montignoso a Rimini, evento organizzato in collaborazione con il Ministero della Transizione Ecologica e il Comitato promotore nazionale della Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti, con il coordinamento di Aica, Associazione Internazionale per la Comunicazione Ambientale. L’edizione 2021, con un percorso di 416 chilometri e 22.000 metri di dislivello, si è svolta dal 23 al 29 aprile.
L’eco atleta Roberto Cavallo sostiene che “un territorio pulito è in pace, la mafia non vuole bellezza”. Per tale ragione ricerca le origini e i luoghi dei conflitti che hanno toccato la nostra storia recente e dato origine alla nostra democrazia. La Keep Clean and Run punta ad allargare la platea degli sportivi che abbinano l’attività fisica a quella della rimozione degli abbandoni in natura. Il littering che uccide i mari è un crescente malcostume che vede i rifiuti gettati o abbandonati con noncuranza nelle aree pubbliche invece che negli appositi bidoni; va contrastato nei suoi luoghi d’origine, cioè nell’entroterra.
Roberto Cavallo e il suo coach Roberto Menicucci sono partiti da Montignoso (MS) per arrivare a Rimini percorrendo i territori di quella che fu la Linea Gotica. Una corsa per sensibilizzare e ricordare, caratterizzata da azione concrete per contribuire a ridurre la presenza di rifiuti lungo i sentieri e le strade e monitorare la qualità dell’aria grazie ad uno strumento chiamato Flow 2. In parallelo alla corsa sono stati organizzati eventi sul territorio che hanno coinvolto amministrazioni locali, associazioni, scuole e cittadini. Complessivamente sono stati raccolti 60,77 kg di rifiuti, con una media di 150 g per chilometro percorso. Gli eco-runner nel percorrere la Linea Gotica hanno raccolto i rifiuti trovati lungo il percorso, ma nello stesso tempo hanno invitato le amministrazioni coinvolte dalla manifestazione ad organizzare azioni di pulizia e di plogging (per plogging si intende la nuova iniziativa sostenibile che ha preso vita in Svezia e che combina la corsa con la cura dell'ambiente).
I rifiuti raccolti dagli eco-runner sono stati catalogati con un’analisi merceologica al fine di evidenziare le principali frazioni inquinanti. Purtroppo molti rifiuti, come ad esempio gli imballaggi di carta e di cartone, a contatto con il terreno si alterano rendendo così necessari il loro conferimento nel circuito della raccolta indifferenziata. Il differenziato infatti è stato pari solo al 23%. Se i rifiuti fossero stati correttamente separati e non gettati a terra, la percentuale di differenziata sarebbe stata pari al 53%. I materiali raccolti sono stati perlopiù carta, plastica, vetro e metalli.
Il monitoraggio dell’aria grazie a Flow 2 ha mostrato una buona qualità dell’aria nella prima tratta, specie in territorio montagnoso-appenninico per poi peggiorare progressivamente con l’avvicinarsi alle città costiere. Nello specifico si è rilevato un picco della concentrazione di NO2 (Biossido di azoto) fra le ore 13 e le 14 dovuto al traffico veicolare lungo la statale che collega San Piero in Bagno a Sarsina.
In continuità con il messaggio di pace introdotto nella scorsa edizione, la corsa ha toccato quest’anno i luoghi più significativi della Seconda Guerra Mondiale, passando in paesi simbolo di quella resistenza che ha posto le basi per la nostra società, tra cui Sant’Anna di Stazzema, Montesole di Marzabotto e il Passo del Carnaio in San Piero in Bagno. Quest’ultimo, meno conosciuto dei primi due, è il luogo dove il 25 luglio del 1944 furono uccisi ventisette cittadini di San Piero In Bagno. Oggi il luogo è coperto da un bosco di querce e faggi, ma nel 1944 vi sorgeva un'unica solitaria quercia sotto la quale le vittime trovarono momentanea sepoltura. Sul ciglio della strada una bacheca illustra i principali eventi della Seconda guerra mondiale e della Linea gotica. Sul luogo dell’eccidio sono visibili i resti della quercia, essiccatasi negli anni ’80. Tre piccole lastre di bronzo collocate lì vicino ricordano le tre fosse dove furono sepolte le vittime prima della loro traslazione al cimitero di San Piero in Bagno nel settembre 1945. Su ogni lastra è scritta la strofa di una poesia di Gianni Rodari sulle cose da fare di giorno e di notte e sulle cose da non fare mai, nè di giorno nè di notte, nè per mare nè per terra, per esempio la guerra.
A distanza di tre mesi dalla manifestazione, sembrano riecheggiare ancora le parole di Roberto Cavallo, che nelle scuole è andato soprattutto per spiegare come sia importante dare l’esempio ed impegnarsi attivamente nella raccolta di rifiuti. L’eco-atleta ha anche espresso l’idea che rimproverare coloro che gettano rifiuti per terra sia controproducente perché può incrementare antipatie nei confronti degli ecologisti e scatenare inutili attriti tra le persone. L’ecologia sta diventando in sostanza un termine che sembra sempre più sinonimo di pace.
Aris Baraviera, Milano, 29 luglio 2021.
Dopo la cancellazione dello scorso anno, la quarta edizione del “MEMORIAL RUN” si presenta in modalità virtuale ed è aperta a tutti, in Italia e all’Estero. Da oggi fino al 23 maggio è possibile iscriversi alla corsa per contribuire alla cultura della legalità e per mantenere vivo il ricordo a 29 anni dalle stragi
Il “Memorial Run” di Palermo è una manifestazione aperta a tutti coloro che desiderano testimoniare con la propria presenza virtuale, attraverso la corsa, la fedeltà a valori come rispetto e legalità. Valori in nome dei quali persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i componenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani; poi Paolo Borsellino e gli agenti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.
Correva l’anno 1992 quando in Italia, in una situazione già carica di difficoltà, si inseriva l’improvvisa recrudescenza dell’offensiva mafiosa contro i poteri delle Stato.
Qualche mese prima era venuto a galla un nuovo gravissimo scandalo che stava coinvolgendo un numero crescente di uomini politici accusati di aver preteso e ottenuto tangenti per la concessione di appalti pubblici. L’inchiesta svelava un diffusissimo sistema di finanziamento illegale dei partiti e di autofinanziamento dei politici sostenuto dalla complicità di società e imprenditori privati. Alla crisi dei partiti si aggiungevano anche i problemi della crisi produttiva e della gravissima posizione debitoria dello Stato.
Il 23 maggio 1992 mentre erano in corso alla Camera le votazioni per la presidenza della Repubblica, un attentato dinamitardo lungo l’autostrada fra l’aeroporto di Palermo e la città uccise il magistrato Giovanni Falcone, direttore degli affari penali del ministro della Giustizia, la moglie e i tre agenti della scorta. Meno di due mesi dopo, il 19 luglio, il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta furono uccisi da un’autobomba nel centro di Palermo. Falcone e Borsellino erano stati in prima fila nella lotta alla mafia. Falcone era candidato a dirigere la superprocura antimafia, di recente istituzione, e dopo la sua morte si era fatto il nome di Borsellino per la stessa carica. L’ondata emotiva e la mobilitazione suscitate dalle due stragi sollecitarono a potenziare le indagini e a mettere a nudo gli intrecci tra mafia e politica.
Da giovedì 13 fino a domenica 23 maggio si corre dunque la quarta edizione del “Memorial Run”. Undici giorni per correre la propria corsa ovunque, dedicandola alle undici vittime delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Vista la cancellazione dell’evento dello scorso anno, per rispettare le norme sanitarie relative al controllo della pandemia, la nuova edizione non competitiva non prevede più i Parkrun che hanno contraddistinto le edizioni passate, ma si corre virtualmente e ogni partecipante può scegliere il luogo e il percorso. E’ disponibile una APP con il percorso virtuale che passa nel centro di Palermo. Sulla APP oltre a scaricare il percorso virtuale si può segnalare il proprio tempo e mandare una foto.
Il programma prevede 2 km per bambini e famiglie e 5 km per gli adulti a partire dai 15 anni.
L’iscrizione è esclusivamente online collegandosi al seguente sito:
www.njuko.net/corsaperlamemoria
Con l’iscrizione ogni partecipante riceve il virtual kit con il pettorale personalizzato e l’attestato da stampare e conservare. Si può scegliere di completare l’acquisto aggiungendo il pacco gara che comprende una t-shirt in cotone 100%, una canotta in tessuto tecnico personalizzata della Corsa per la Memoria, la medaglia, la stampa a colori del libretto ricordo delle vittime delle stragi.
Per maggiori dettagli: www.corsaperlamemoria.it
La “Corsa della memoria” non è mai stata solo un appuntamento sportivo, ma è nata per esaltare il coraggio, l’altruismo e il sacrificio. Nicolas Meletiou (Managing Director ESO), uno degli organizzatori, dice che è una corsa per quelli che credono nella legalità e nella libertà, per quelli che hanno scelto di vivere con la schiena dritta. Come per le scorse edizioni della corsa, anche quest’anno il ricavato (al netto dei costi) viene devoluto a un’opera di riqualificazione urbana a beneficio della cittadinanza e nel rispetto dell’ambiente. Nascerà a Palermo “IL Giardino di Betty” (dal nome di Elisabetta Salvioni Meletiou che ha condotto il progetto Esosport fino alla prematura scomparsa nel 2011) un parco giochi realizzato con pavimentazione antitrauma fatta con il riciclo di scarpe sportive, palline da tennis copertone e camere d’aria di biciclette.
Giorgio Cambiano, l’altro organizzatore, creatore del percorso virtuale che si snoda nel centro città e passa nei luoghi che sono stati teatro delle stragi, fa sapere che per gli organizzatori è un onore avere il sostegno della Fondazione Falcone oltre a quello della Federazione Italiana Atletica Leggera.
Aris Baraviera, Milano, 13 maggio 2021.
La KEEP CLEAN AND RUN non si ferma nemmeno di fronte alla pandemia
Keep Clean and Run è un’iniziativa di sensibilizzazione ecologica e di mobilitazione contro il fenomeno noto come littering, cioè l’abbandono di rifiuti in natura. L’eco-atleta Roberto Cavallo è pronto ad affrontare la settima edizione in programma dal 23 al 29 aprile 2021, e assieme al suo team attraverserà correndo l’Appennino Tosco-Emiliano, raccogliendo i rifiuti abbandonati lungo la “Linea Gotica”, settantasei anni dopo la Liberazione italiana dal Nazi-Fascismo che si festeggerà il prossimo 25 aprile.
Roberto Cavallo, agronomo, saggista italiano, oltre che eco-atleta ha fondato insieme ad altri soci la società cooperativa Erica, tra le prime aziende in Italia ad occuparsi di rifiuti sia in termini di progettazione tecnica che di comunicazione. Dopo aver ricoperto diversi ruoli istituzionali è diventato relatore di convegni italiani ed internazionali. Fra le sue più importanti apparizioni in tv c’è la trasmissione “Scala Mercalli”, dove è stato ospite, interprete e co-autore con il divulgatore scientifico Luca Mercalli.
La Keep Clean and Run ha già acquisito una certa notorietà grazie alle precedenti edizioni:
L’edizione di quest’anno assume la denominazione di Keep Clean and Run For Peace 2021 e si snoda lungo la “Linea Gotica”. In tutto sono 416 chilometri con 37.000 metri di dislivello, da Montignoso (MS) a Rimini, passando quel confine sugli Appennini che per quasi un anno ha diviso in due l’Italia liberata dagli Alleati a Sud e i territori ancora occupati dai nazi-fascisti a Nord al termine del secondo conflitto mondiale.
Occorre ricordare che a partire dall’estate del 1943 iniziò il graduale ripiegamento delle forze armate tedesche sotto la pressione degli attacchi sovietici a Est e delle offensive alleate seguite agli sbarchi a Sud (10 luglio 1943 in Sicilia) e a Ovest (Normandia 6 giugno 1944).
Dalla fine di agosto 1944 all’aprile del 1945 la campagna d’Italia si svolse soprattutto sulla “Linea Gotica”, che altro non era che un sistema di fortificazioni tracciato dai tedeschi e che prevalentemente poggiava sugli Appennini. I lavori difensivi erano stati condotti in gran fretta in estate, ma non erano terminati. Si contavano 2400 postazioni per mitragliatrici e 480 per artiglieria, 120 chilometri di reticolati e una serie di fossati anticarro. Il maggior elemento di forza veniva dalla morfologia del territorio: montagne aspre, una breve pianura inzuppata d’acqua, dai primi di settembre pioggia e fango, poi neve e gelo. Gli Alleati avevano una superiorità aerea assoluta, ma sulla “Linea Gotica” contavano di più la fanteria e l’artiglieria. Le condizioni atmosferiche eccezionalmente sfavorevoli furono probabilmente la causa principale dei ritardi nel superamento della linea ad opera delle truppe alleate, nonostante il valoroso appoggio di 70-80.000 partigiani attivi sulle montagne della Toscana e dell’Emilia Romagna.
L’obiettivo strategico principale per gli Alleati era di travolgere e annientare le forze tedesche prima che queste potessero mettersi in salvo al di là del Po. La data d’inizio dell’offensiva finale fu fissata per il 9 aprile 1945 e venne coordinata con le azioni sul fronte nord-occidentale dove gli Alleati stavano compiendo progressi nell’ambito dell’invasione della Germania. Si concluse tra il 21 e il 26 aprile.
La settima edizione della Keep Clean and Run è stata presentata durante la conferenza stampa video tenutasi il 13 aprile scorso e moderata dal giornalista sportivo Silvano Gadin.
E’ intervenuta anche la sottosegretaria al Ministero della Transizione Ecologica On. Ilaria Fontana, che ha sottolineato come il “fare” sia l’esempio migliore da dare alle nuove generazioni in un momento storico che finalmente vede l’ambiente al centro delle agende politiche. Sempre in tema di esempio da dare ai giovani, Roberto Cavallo ha spiegato come la fatica dell’eco-runner sia di grande significato, proprio perché l’equilibrio tra uomo e pianeta richiede sacrificio continuo e perché bisogna insegnare ai giovani che nella vita nessuno ti regala mai niente. Cavallo ha poi voluto chiarire bene la filosofia della sua plogging (termine che indica la corsa abbinata alla raccolta di rifiuti), giunta alla settima edizione, che quest’anno più che mai poggia sui concetti di pace, liberazione e salvaguardia del Mediterraneo.
Durante la conferenza stampa il giornalista Gadin ha spiegato che ogni singola tappa sarà di circa 60 km, con dislivello medio di circa 3 mila metri. Tranne alcuni brevissimi tratti con l’ausilio della bici, la maggior parte verrà percorsa correndo.
Cavallo e il suo coach saranno costantemente monitorati con il GPS e seguiti da uno staff di 15 persone. La società Erica, come ha spiegato Luigi Bosio presidente della stessa, metterà a disposizione un rilevatore d’aria per monitorarne la qualità e intercettare i composti volatili come PM1- PM2,5- PM10- NO2- VOCs. Ha anche detto che da quando è in corso la pandemia di Covid 19 la qualità dell’aria è migliorata (meno ossido di azoto e meno PM10). Emanuela Rosio di AICA ha fatto notare però che sul terreno si trovano nuovi rifiuti solidi come le mascherine. Sempre Bosio di Erica ha fornito alcuni dati sull’edizione dello scorso anno, sottolineando che Cavallo e il suo coach avevano raccolto 204 kg di piccoli rifiuti, fotografato e segnalato quelli più ingombranti alle autorità comunali.
E’ intervenuto anche Livio Stellati a nome dello sponsor Unicredit che ha dichiarato di condividere gli obiettivi di transizione verde e di ecosostenibilità e che l’istituto si è impegnato al consumo ecosostenibile e a diminuire drasticamente l’uso della carta.
“Desertificazione e degrado del suolo – ha concluso Cavallo -- stanno facendo emergere rifiuti dai laghi e dai ghiacciai in ritirata. Raccogliere un rifiuto per terra significa salvare un altro essere vivente, significa creare le condizioni per un clima di pace: una nuova liberazione … io ci metto la faccia e le gambe, ma tutti devono sentirsi in dovere di fare la loro parte …”
Per conoscere le tappe della settima edizione cliccare qui:
Aris Baraviera, Milano, 19 aprile 2021.
Per i prossimi 24-30 aprile e 22-28 maggio sono previste due spedizioni verso il Selvaggio Blu raccontato in questa rubrica nell’intervista a Veronica Compagnoni del primo febbraio scorso. Altre date seguiranno in previsione del prossimo autunno.
Andrea Rosà, marito di Veronica, condurrà gli appassionati che vorranno godere della natura incontaminata di questo tratto di Sardegna così selvaggio, austero e primordiale.
Andrea, laureato in Scienze Forestali e Ambientali all’Università di Padova, da 8 anni lavora a tempo pieno come Guida Alpina. Vive ad Arco di Trento, un luogo che l’ha aiutato non poco a portare avanti questo mestiere.
Il Selvaggio Blu, così chiamato per il colore blu intenso del mare che risalta tra il verde della vegetazione e il giallo grigio delle verticali pareti rocciose che si affacciano su di esso, è un percorso di trekking tra Pedra Longa e Cala Sisine. Il blu è il colore delle sensazioni profonde, della riflessione e della saggezza, della tranquillità interiore. Blu è il colore di quel mare e di quel cielo che rappresentano l’unico confine dell’orizzonte. Blu è il colore delle notti passate a riscrivere mentalmente il paradigma dei suoni della natura, dei fruscii che sembrano far vibrare intensamente il profondo dell’anima.
Andrea, da quando ha deciso di intraprendere la strada del libero professionismo insieme alla moglie, ama concentrarsi sull’esperienza da far vivere ai clienti, perlopiù italiani, ma anche tanti tedeschi, inglesi, americani e norvegesi. Ora desidera rallentare il ritmo di lavoro a beneficio della qualità delle escursioni.
Il percorso del Selvaggio Blu è particolarmente scosceso e dirupato, con alte falesie che precipitano direttamente sul mare. Cenge e provvidenziali passaggi tra buchi naturali sulla roccia permettono di camminare agevolmente. Ci hanno pensato i pastori, con il loro sapiente mestiere, a renderli percorribili dove i salti non erano troppo alti. Incredibili scale fatte con rami di ginepro consentono di superare brevi dislivelli e rappresentano un unicum nel loro genere. Ogni sentiero, ogni ovile, ogni mulattiera ha una sua precisa storia, e dove i maialini -- da cui il famoso piatto sardo: il porceddu -- e le capre hanno dominato la scena ininterrottamente. Per riuscire a vivere in zone così aspre e inospitali, i pastori hanno dovuto studiare attentamente quello che stava loro attorno, senza imporsi e sfruttare la natura, ma cercando di capirla e comprenderla fino ad entrare in sintonia con essa.
Andrea ama praticare tutte le attività in montagna, dall’arrampicata, al canyoning, all’alpinismo tecnico sui ghiacciai, fino al trekking. Il suo apporto nel percorso del Selavaggio Blu risulta fondamentale soprattutto in alcuni tratti, quando il passaggio non è per nulla agevole e bisogna ricorrere alle tecniche alpinistiche. Rosà ha lavorato sul Monte Bianco, il Monte Rosa, le Dolomiti, le Alpi svizzere e austriache, in Sardegna, in Norvegia, in Spagna e in Croazia. Da quasi 5 anni collabora anche con i ragazzi di Mystic Freeride, un’associazione sportiva che dal 2009 organizza -- in collaborazione appunto con le Guide Alpine -- attività fuoripista in neve fresca e che promuove la sicurezza sulla neve anche tramite dei camp rivolti sia a neofiti che ad avanzati, in Svizzera, Dolomiti e Tonale.
L’escursione in Sardegna, pianificata sul percorso del Selvaggio Blu per aprile e maggio, sarà della durata di 5 giorni e 4 notti. I primi due giorni (da Pedra Longa a Ovile su Idileddu proseguendo poi per Portu Pedrosu), permetteranno di adattarsi all’ambiente e ai ritmi muovendosi con leggerezza ed agilità e imparando ad evitare i rami spinosi; susciteranno il desiderio di provare il bagno ristoratore nelle incantevoli cale raggiungibili ad ogni tappa. La difficoltà aumenterà poi gradualmente gli ultimi 3 giorni (da Portu Pedrosu a Su Tassaru, poi all’Ovile Ololbizzi e infine a Cala Sisine) dove ci si troverà ad affrontare anche brevi passaggi di arrampicata con l’uso della corda e calate in corda doppia. Il centro logistico sarà il Rifugio Cooperativa Goloritzé in località Golgo nel comune di Baunei.
Saranno cinque giorni dove non conterà l’ora scandita dalle lancette dell’orologio, ma conterà solo il sorgere e il calare del sole. Cinque giorni in totale sintonia con il Mondo e con la natura di cui si diventerà parte. Cinque giorni ad ammirare lo spettacolo del giorno e della vita che si rinnovano.
Per maggiori informazioni sui viaggi di aprile e maggio:
Per contattare direttamente Rosà Andrea:
Aris Baraviera, Milano, 21 febbraio 2021.
L’intervista a Veronica Compagnoni, Accompagnatore di Media Montagna, che ci racconta Il Selvaggio Blu, un trekking unico nel suo genere perché il suo percorso si snoda contemporaneamente tra mare e montagna in uno dei territori più incontaminati del Mediterraneo.
AB: “Veronica ben ritrovata! Che cos’è il Selvaggio Blu?”.
Veronica: “E’ un trekking diverso rispetto a quelli cui siamo abituati. E’stato tracciato e percorso per la prima volta nel 1987 collegando antichi sentieri pastorali e mulattiere dei carbonai. E’sulla costa di Baunei, che si affaccia sul Mar Tirreno nella parte centrale della Sardegna, ed è accessibile via terra solamente a piedi. Il Selvaggio Blu è un’esperienza che ti trascina fuori dall’ordinario e ti proietta per giorni nell’essenzialità, dove il pensiero principale della giornata diventa trovare una strada e il riparo per la notte...connessi solo con se stessi, i compagni di viaggio e un ambiente naturale e storico che impari a rispettare giorno dopo giorno”.
AB: “…Wow! E perché desideri raccontarcelo?”
Veronica: “A chi ha già avuto la fortuna di vivere questa memorabile esperienza, su uno dei tanti percorsi e varianti presenti, in gruppi organizzati o in modo indipendente, questo può essere un racconto di ricordo e confronto. Spero vivamente che la mia prima esperienza qui, fatta con mio marito e i suoi genitori, possa essere di spunto e di interesse per chi ancora non lo conosce o lo tiene nel cassetto da tempo”.
AB: “Quando ci sei andata? Ci dai qualche dato dell’avventura?”.
Veronica: “Ecco, l’inizio è stato il 17 ottobre scorso: quattro notti all’aperto di cui una riparati da una tettoia di un cuile e una in grotta, 5 giorni di meraviglie una dopo l’altra. Il percorso è di circa 50 km, neanche tanti penserete … ma fidatevi, vi ricorderete ogni centimetro! Ci sono circa 3000 m di dislivello positivo totale, la temperatura a ottobre oscillava tra i 17 e i 20 gradi. Ho fatto quattro bagni al mare, calpestando la sabbia delle spiagge incantevoli e incontaminate sulla costa occidentale sarda”.
AB: “Come siete arrivati in Sardegna? Dov’era situata la base logistica?”
Veronica: “Siamo arrivati ad Olbia partendo col traghetto da Livorno. Poi abbiamo proseguito con il furgone. La zona é quella del Supramonte di Baunei, comune di Nuoro nella subregione dell’Ogliastra. Quando percorri i tornanti sopra Baunei, ti ritrovi in breve sull’altipiano del Golgo: magnifici boschi di leccio sono l’habitat ideale per i numerosi maialetti, asini, capre e pecore che in parte gestiti e in parte no, scorribandano alla ricerca di ghiande e tenere foglie. Ci risulta difficile immaginare che queste zone erano un tempo in parte coltivate a orzo e frumento. Sì, perché tutto l’altipiano e anche l’impervia costa che da qui digrada verso il mare sono stati per lungo tempo gestiti e vissuti da locali pastori, porcai, agricoltori, cacciatori, boscaioli, carbonai...tutti accomunati dalle medesime difficoltà: la carenza di acqua dolce, il sostentamento e la difficoltà degli spostamenti.
Ecco, la prima sera abbiamo cenato e ci siamo sistemati nei bungalows del Rifugio Cooperativa Goloritzè, in località Golgo di Baunei, a pochi chilometri dalla costa. Questa associazione ci ha fornito l’appoggio logistico durante i cinque giorni di permanenza in Sardegna. Sono ragazzi molto preparati che conoscono il territorio come le loro tasche”.
AB: “Che caratteristiche ha questo trekking? Che tipo di terreno c’è?”
Veronica: “Il terreno è vario: si passa da tratti di sentiero ben tracciato, a lastre calcare taglienti, passaggi nella macchia mediterranea, cenge a picco sul mare. Il Selvaggio Blu ripercorre e collega tra loro antichi sentieri, mulattiere e camminamenti che tortuosamente, e a volte impavidamente, superano pareti, profondi solchi (bacus) e ripidi canaloni. Questi percorsi fungevano da collegamento tra un ovile e l’altro per garantire mutua assistenza tra i pastori, oppure molto spesso servivano a questi ultimi per recuperare le capre che non facevano ritorno all’ovile, infilandosi in corridoi carsici senza uscita. Molti camminamenti sono stati realizzati dai carbonai provenienti dalle coste italiane, che a partire dalla seconda metà del XIX secolo hanno utilizzato il legno di leccio per la produzione di carbone, necessario alla crescente richiesta della nascente industria. Caratteristiche sono le “iscalas de fustes”, costruite con tronchi di ginepro incastrati tra loro a creare appoggi per superare tratti verticali lungo i versanti. Si tratta di passaggi particolari costruiti nel tempo da pastori e carbonai che per muoversi usavano fusti di ginepro incastrati e appoggiati, che in alcuni punti diventano veri e propri scalini ampi ma non troppo agevoli da percorrere”.
AB: “Ma dove inizia esattamente il percorso del trekking?”
Veronica: “Si parte da Pedra Longa, che è un roccione calcareo a picco sul mare e ci si immerge letteralmente nel blu. Lì si può solo immaginare quale passato questo territorio abbia avuto per mano delle genti e dei secoli. La parte scenografica è di indiscussa bellezza, una bellezza resa ancora tale dalla difficoltà di accesso, che oggi come allora ne rappresenta la principale caratteristica. Poi ci si accorge che è iniziato il viaggio, insieme ai compagni di avventura! Ci si lascia trascinare dal ritmo dei passi sempre attenti, che devono fare i conti con lame calcaree taglienti, campi carreggiati, arbusti dalle spinosità multiformi, seguendo con attenzione i segni del terreno, la logica dei passaggi, i punti di riferimento, l’orientamento e la traccia del GPS...strumento quanto mai indispensabile!”.
AB: “Qual è invece il punto di arrivo?”
Veronica: “L’arrivo della quinta e ultima tappa è a Cala Sisine, una delle bellissime spiagge del golfo di Orosei”.
AB: “Che tipo di preparazione bisogna avere per questa avventura?”
Veronica: “Bisogna avere un po’ di esperienza ed essere un minimo allenati. E’ un percorso che necessita di un passo sicuro in montagna …si tratta di un trekking sconsigliato a chi soffre di vertigini. La Guida alpina è indispensabile soprattutto nel superare i passaggi in calata in corda doppia e piccoli tratti di arrampicata in sicurezza, che però sono esposti a vuoto e picco sul mare”.
AB: “Chi fosse interessato a provare queste emozioni che hai vissuto tu cosa deve fare?”
Veronica: “Beh, mio marito, che è una Guida Alpina, ha già pianificato due date in cui proporrà il Selvaggio Blu: la prima è dal 24 al 30 aprile, la seconda dal 22 al 28 maggio. Vi faccio avere tutte le informazioni a stretto giro, se volete”.
AB: “Ok grazie Veronica, le aspettiamo volentieri allora! Cosa vuoi suggerire a chi vorrà fare questo salto nel blu?”
Veronica: “Beh, incuriositevi iniziando a leggere qualcosa e guardate le foto su internet. Poi chiudete gli occhi e lasciatevi trasportare sulla Costa Tirrenica della Sardegna, alla scoperta di un tratto di costa con un patrimonio naturalistico eccezionale, percorribile solo a piedi, da sud a nord, con spiagge e scorci tra i più emozionanti del Mediterraneo. Ecco, preparatevi ad assaporare ogni singolo istante e vivere tutte le emozioni possibili che saprà regalarvi questa avventura, al cospetto di un mare dipinto intensamente di blu”.
Aris Baraviera, Milano, 1 febbraio 2021.
Correre, camminare nei parchi, fare trekking ed escursioni, o semplicemente andare a giro, sono attività che significano libertà pura e semplice e che noi abbiamo sempre dato un po’ per scontato. Soltanto nel giorno in cui la pandemia ce ne ha privati, ci siamo accorti di quanto non avessimo mai approfittato pienamente di queste libertà.
Ormai da parecchi mesi moltissime persone trascorrono tante ore in casa, lavorando magari dal proprio domicilio per tanto tempo incollate davanti al PC. Le palestre sono chiuse, le gare di Running annullate e le escursioni sospese fino a data da destinarsi. Il divieto di allontanarsi troppo dalla propria abitazione che vige nelle zone rosse ha imposto ai runner nuovi percorsi obbligati e ripetitivi di allenamento, spesso forzatamente sull’asfalto. Per fortuna esistono cyclette, rulli e tapis roulant e spesso ci si consola così.
Non è un periodo facile per nessuno. L’ apprensione per le condizioni di salute dei nostri cari, le notizie di gente che non ce l’ha fatta, la mancanza di vita sociale e le preoccupazioni economiche sono terreno fertile per ansia e depressione. Si cerca per quanto possibile di restare sereni, possibilmente allenati per trovare relax ed equilibrio, aspettando tempi migliori. Difficile salvare qualcosa dell’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle.
Qualcosa di positivo però c’è stato nel 2020: le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera si sono ridotte del 7% rispetto all’anno precedente, come pubblicato sulla rivista scientifica Earth System Science Data. In Cina il calo delle emissioni è stato lieve, mentre negli Stati Uniti è stato del 12% e nell’Unione Europea dell’11%. Ovviamente il calo è dovuto alle misure adottate per contrastare la pandemia di covid- 19, ma la speranza è che alcune tendenze che si sono manifestate nel 2020 rimangano anche in futuro. La riduzione delle emissioni legate all’uso del carbone, per esempio, potrebbe essere confermata nel lungo periodo.
Il 12 dicembre scorso Francia e UK (quest’ultimo presidente del Cop36 sul clima in programma a Glasgow il prossimo novembre 2021) hanno organizzato con il Segretario Generale delle Nazioni Unite una videoconferenza per celebrare i 5 anni dagli Accordi di Parigi e ricordare la necessità di un impegno assoluto da parte di tutti di fronte al riscaldamento climatico. Sono stati invitati tutti i 194 paesi firmatari (compresi i 5 paesi che non li hanno ratificati).
Dopo la Conferenza sull’Ambiente tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 e Il Protocollo di Kyoto del 1997 (entrato in vigore solo nel 2005, NDR), gli Accordi di Parigi del 2015 rappresentano il terzo grande evento internazionale in ordine cronologico per la salvaguardia del clima sul nostro pianeta. Ricordiamo che gli accordi stabiliscono un quadro globale per evitare pericolosi cambiamenti climatici, limitando il riscaldamento del pianeta ben al di sotto dei 2 gradi rispetto al periodo pre-industriale (per ora la temperatura è già cresciuta di 1,2 gradi). L’ obiettivo di lungo termine invece è proseguire con gli sforzi per limitarlo a 1,5 gradi. Inoltre puntano a rafforzare la capacità dei paesi di affrontare gli impatti dei cambiamenti climatici e a sostenerli nei loro sforzi.
Purtroppo però le temperature degli ultimi anni sono state le più alte mai registrate e infatti gli incendi, gli uragani e le ondate di caldo sono più frequenti che in passato. Nel 2019 il Segretario generale dell’ONU dichiarava che al ritmo attuale la temperatura globale sarebbe aumentata di almeno tre gradi entro la fine del secolo, un dato chiaramente incompatibile con gli obiettivi fissati a Parigi nel 2015.
Per fortuna di recente qualcosa è cambiato e di conseguenza anche le previsioni sul destino del pianeta. Durante il vertice del 12 dicembre c’è stata un’accelerazione sugli impegni presi dai singoli paesi e sugli obiettivi giuridicamente vincolanti: negli ultimi mesi il Giappone, la Cina e la Corea del Sud si sono impegnati ad azzerare le emissioni nette entro metà secolo. Si presume che nei prossimi mesi gli Stati Uniti annuncino degli obiettivi simili. Se lo faranno anche loro, queste disposizioni riguarderanno il 63% delle emissioni globali attuali. Anche l’Europa con il programma Next Generation, di cui si parla tanto in questi giorni, è sempre più orientata a obiettivi che rispettino l’ambiente, evitando grandi opere inutili e dannose. Secondo molti scienziati il vento sta davvero cambiando: ad esempio i ricercatori delle organizzazioni New Climate istitute e Climate analytics, hanno annunciato che la tendenza attuale suggerisce che entro la fine del secolo l’aumento della temperatura globale potrebbe essere di 2,1 gradi, quindi molto al di sotto delle previsioni fatte solo qualche anno fa (+3 gradi previsti nel 2019).
Insomma, non è certo il momento di cantare vittoria, ma perlomeno è davvero rinata la speranza di potercela fare.
La redazione di Running In The Park porge i più sinceri auguri di buon anno ai lettori e alle loro famiglie. Per l’occasione la redazione stessa ha contattato i protagonisti delle interviste dell’anno passato per ottenere da loro una breve riflessione sia sull’anno vecchio che su quello nuovo. Questa la domanda della redazione: “Cosa salvereste dell’anno 2020? Che obiettivi avete per il nuovo anno?”
Carlo Panizzari: “Da salvare direi l’estate. E’ stato un momento di respiro dopo il primo lockdown e il secondo che già si prevedeva. Ce le siamo godute le vacanze. Sono iniziate con qualche giorno trascorso con gli amici, ho fatto 3 bellissime escursioni in montagna con Veronica, un fantastico giro in bici, tanto nuoto che mi ha permesso di fare poi la gara a Sirmione. Abbiamo fatto delle belle gite familiari e ricordo con piacere la pizzata con il team di Martina Dogana. Come obiettivo per l’anno nuovo c’è il Triathlon Olimpico a Idro a fine giugno”.
Massimiliano Rovelli: “Poche cose da salvare del 2020. Gli obiettivi per l’anno nuovo sono la Maratona di Milano e la Maratona di Roma. La cosa più importante però è salvare la nostra salute che è molto preziosa di questi tempi”.
Marta Carradore: “Da salvare del 2020 sicuramente l’insolito tempo libero che ho potuto dedicare a mio figlio. L’obiettivo per il 2021 è tornare a vivere, ad allenare e allenarmi nella massima libertà”.
Alessandro Ricci: “Da salvare lo snorkeling e le immersioni in apnea fatte quest’estate nell’isola di Giannutri. Per l’anno nuovo l’obiettivo è poter ritornare sulla stessa isola e ripetere tutto.”
Stefano Mossini: “Dell’anno vecchio salverei lo spirito di aggregazione e l’entusiasmo che ho conosciuto nelle nuove amicizie. Nel 2021 vorrei ampliare la partecipazione. I gruppi delle escursioni sono una risorsa sociale e io credo proprio che ci sia tanto bisogno di reagire e uscire dalla solitudine”.
Veronica Compagnoni: “Nel 2020 ho conosciuto persone nuove e con loro ho vissuto la montagna… e queste sono le cose belle che salverei. Così come salverei il Trekking Selvaggio Blu in Sardegna realizzato ad ottobre: 5 gg e 4 notti dormendo sotto le stelle! Che bella esperienza! Per il 2021 c’erano progetti … tra cui ritornare in Sardegna, percorrere il Sentiero degli Dei e portare con me mia mamma a fare un cammino, forse un tratto della via Francigena… ma ho scoperto a novembre di aspettare un bimbo che nascerà a luglio, perciò la sfida del 2021 sarà quella di diventare mamma!”
Andrea Chiarioni: “Da salvare il nuovo progetto professionale che ho realizzato. L’obiettivo del 2021 è tornare a correre con più costanza …”
Piergiuseppe Monti: “Poche cose da salvare nel 2020. L’obiettivo sportivo del Consorzio Parco Lago Nord per il 2021 è poter organizzare giornate di sport, cultura e tempo libero, in particolare la manifestazione giunta alla 16ma edizione per i ragazzi da 6 a 13 anni, tristemente saltata lo scorso anno per l’epidemia ...”.
Aris Baraviera, Milano, 1 gennaio 2021.
L’intervista a Piergiuseppe Monti, presidente del Consorzio Parco Lago Nord
AB: “Monti, ci può dire qualcosa sulla Cava e come nasce il Parco Lago Nord?”
Monti: “Beh, noi del Consorzio abbiamo visto nascere questo bellissimo parco, e il Comune si fida di noi perché sa che l’abbiamo sempre gestito bene. Il parco nasce dal recupero ambientale di una cava di sabbia gestita dalla società Cava Nord che aveva in concessione il terreno dal Comune di Paderno Dugnano. Nella società lavorava Luigi Tonelli, uno dei maggiori ispiratori di questa riqualificazione. Il progetto nasce con l’architetto Cerasi e soprattutto con la volontà del Comune di realizzarne un’area verde. A partire dagli anni Ottanta, man mano che venivano dismessi gli scavi, si creava lo spazio per allargare il perimetro dell’area destinata al verde, che nei primi anni di vita occupava quindi un perimetro decisamente inferiore rispetto a quello che ricopre oggi. Ricordo che già tanti anni fa durante gli scavi si formavano delle muraglie di sabbia dove facevano i nidi i gruccioni. Già allora l’area era attenzionata dalla Lipu (Lega Italiana Protezione Uccelli). Attualmente 9 persone del consorzio sono impegnate durante la giornata per la sola gestione ordinaria del parco, anche perché d’estate i cancelli restano aperti dalle 7 alle 21.00”.
AB: “Se non sbaglio il vostro Consorzio nasce prima del Parco. E’ così?”
Monti: “Il Consorzio Parco Lago Nord nasce dall’originaria idea di un gruppo di pescatori nel 1982. E’ formato da 4 società di pesca sportiva: ADPS Paderno Dugnano 1947, SSC Palazzolesi 1969, Club Piranha Padernesi, Club Palazzolo 85. Negli anni Ottanta il Comune di Paderno Dugnano con l’allora sindaco Stefano Strada ci ha dato la possibilità di usufruire del parco stipulando la prima convenzione, che poi abbiamo perfezionato con il suo successore, Mastella”.
AB: “Lei da quanto tempo è il presidente? Quanti sono attualmente i soci? Come siete organizzati?”
Monti: “Io sono presidente dal 1998. Le quattro società consorziate sono arrivate ad avere un totale di 400 iscritti, ora siamo circa 250. Il consiglio direttivo è formato da dodici persone, tre per ciascuna società. Il consiglio indica e vota il presidente a cui spetta assegnare le cariche. Dall’anno della nostra nascita siamo chiamati ad occuparci di numerose attività, alcune legate alla promozione della pratica sportiva della pesca, altre di rilevanza per l’intera città: contributi volontari alla bellezza del luogo in cui viviamo e al benessere della comunità alla quale apparteniamo, uniti ad un grande amore per la natura e per lo sport”.
AB: “Avete in gestione solo una parte del parco, è così?”
Monti: “Sì, giusto. Praticamente entrando dalla parte del Carrefour quella che si vede a sinistra è la parte di nostra competenza. La passatoia alberata rappresenta quindi lo spartiacque. Nel nostro perimetro c’è il bar in alto e anche il punto ristoro sotto, dove vengono rilasciati i permessi. Anche la cascatella rientra nella nostra gestione. L’anfiteatro è fuori dal nostro circondario, ma quando capita l’evento da proporre, chiediamo la disponibilità al Comune. Tutta la parte destra è di gestione comunale. Ci avevano anche proposto di prendercela in carico, ma francamente sarebbe diventato troppo grande lo spazio da gestire”.
AB: “Oltre a gestire rapporti con il Comune di Paderno Dugnano, li avete anche con il Consorzio GRU-BRIA, cioè quello nato nel 2019 dall’unione del Grugnotorto Villoresi e Brianza Centrale?”
Monti:”No no, noi parliamo solo con il Comune di Paderno per la gestione del Parco. E’ l’ente territoriale comunale che ci dà la concessione. Poi il Comune per eventuali opere di riqualificazione si relaziona invece con il Consorzio GRU-BRIA, che è un istituto giuridico che disciplina un'aggregazione volontaria legalmente riconosciuta. Nella fattispecie si tratta di un consorzio sovracomunale nato nel 1999 come Grugnotorto Villoresi e che poi è divenuto GRU-BRIA nel 2019”.
AB: “Posso chiederle se hanno un nome i quattro accessi al parco?”
Monti: “I quattro accessi hanno ciascuno il proprio nome: Porta Serviane, Porta Luigi Tonelli, Porta Cascine Uccello e Porta Grugnotorto”.
AB: “Il fiore all’occhiello del parco è sicuramente l’avifauna, è d’accordo?”
Monti: “Si certamente, abbiamo tantissima varietà di uccelli sia stanziali che migratori che depongono anche le uova in prossimità dello specchio d’acqua più selvaggio, cioè quello non adibito alla pesca. I bimbi amano in particolare le anatre, le oche e i cigni e anche le tartarughe che non essendo autoctone hanno un po’ rovinato l’habitat, dato che si cibano un po’ di tutto e quindi anche delle uova dei carassi, dei cavedani e delle alborelle. Il Parco è bellissimo e molte persone si sorprendono quando ci entrano per la prima volta. Riferiscono che non avrebbero mai immaginato di vedere un’area così verde a ridosso di Carrefour e Superstrada Milano-Meda. Ci sono amministratori comunali che vengono da noi per vedere come gestiamo il territorio, ed è una bella soddisfazione! Da 15 anni si svolge qui la manifestazione ‘Peschiamo e Giochiamo’ rivolta ai ragazzi tra i 6 e i 13 anni, patrocinata dal comune di Paderno, dalla Provincia e dalla Federazione Italiana Pesca Sportiva. Questo evento, che prima si svolgeva all’Idroscalo di Milano, ha visto anche la partecipazione di 1500 persone con catering e tavolate enormi presso l’anfiteatro del parco”.
AB: “Come giudica questo parco per la pratica del Running?”
Monti: “L’anello esterno e superiore è quello utilizzato dai runner che si allenano tutto l’anno qui. C’è anche tanta gente che lo frequenta per praticare della ginnastica o per fare semplicemente delle belle camminate. E’ sicuramente un posto ideale per allenarsi a contatto con la natura ed è molto molto apprezzato in questo senso. Durante l’anno si svolgono anche delle gare podistiche. Le associazioni sportive interpellano l’Ufficio Cultura Sport e Tempo Libero del Comune, che a sua volta chiede a noi di disegnare il percorso della gara assieme alla società organizzatrice. Noi veniamo sempre interpellati perché l’attività della pesca non conosce soste, è sempre attiva e quindi deve essere sempre garantita”.
AB: “Cosa ci dice del Premio Comunità Europea assegnato a Strasburgo nel 2000 come miglior recupero di una cava di sabbia e di ghiaia?”
Monti: “Beh certamente è stata una bellissima riconoscenza per l’intera cittadinanza. Il premio è stato ritirato dal Comune e dall’ingegnere Savini Alberto, il titolare della società Cava Nord”.
AB: “Voi come Consorzio invece avete vinto il Premio Isimbardi, che è una sorta di Ambrogino d’Oro della provincia di Milano in favore delle opere per la comunità nazionale e internazionale. E’ così?”
Monti: “Sì, ho ritirato io il premio ed è stata una bellissima soddisfazione per tutto il Consorzio. Era il 19 dicembre del 2005 nella Sala Barozzi presso l’Istituto dei Cechi di via Vivaio a Milano, alla presenza dell’allora Cardinal Dionigi Tettamanzi e delle autorità della Provincia. Queste soddisfazioni ci ripagano di tanto impegno …”.
Aris Baraviera, Milano, 29 novembre 2020.
Scopriamo i contenuti del primo romanzo di Andrea Chiarioni, pubblicato nel 2016
In amore talvolta il destino è beffardo perché ci fa incontrare la persona giusta nel momento sbagliato. “L’altra metà della mela” quindi esiste davvero, così come esiste il destino. E’ difficile cogliere l’attimo giusto per unire le due metà in costante movimento.
“L’IMPORTANZA DEL MOMENTO” è un romanzo ambientato nell’Italia di qualche decennio fa, ante messaggistica istantanea, al tempo degli SMS. La storia si svolge tra la Sardegna, Milano, Legnano, la Bassa Bergamasca, Reggio Emilia e Grosseto. Il protagonista, Diego, scrittore e giornalista, padre del piccolo Davide, è sposato con la bella Jenny e conduce una vita mondana appagante. L’incontro con Nicole, amore di molti anni prima, riapre però una ferita mai del tutto rimarginata e le sue certezze cominciano a vacillare …
L’autore gestisce con intelligenza la descrizione del mondo narrativo. I luoghi e gli ambienti sono raccontati con cura per poter essere immaginati dal lettore. I personaggi vengono descritti con dovizia di particolari fisici e con marcato giudizio estetico, a volte in modo scanzonato e ironico, altre esaltandone la sensualità agli occhi del protagonista. L’aspetto psicologico dei personaggi è solo delineato nel contorno, lasciando al lettore la possibilità di riempire in modo personale le zone d’ombra, esercitando la fantasia. Il racconto mantiene vivo fino alla fine il dilemma su quale sia il percorso esistenziale migliore per il protagonista. Ma la vita è una sola, anche perché non ci sono deroghe alla felicità come al dolore in nessuna dei suoi differenti tracciati.
Spesso per scrivere un romanzo interessante non è necessario dare vita a trame complesse o forgiare registri linguistici desueti. Spesso la strategia migliore è semplicemente quella di raccontare come alcuni incontri casuali possano determinare inquietudine o felicità a seconda del momento in cui accadono. DA LEGGERE!
Abbiamo rivolto all’autore qualche domanda propedeutica alla lettura del romanzo ( attualmente disponibile solo in formato eBook).
AB: “Diego, il protagonista, ama giocare a calcetto e pratica running per eliminare le tossine e ritrovare la creatività. Inoltre è un tifoso interista. Ti chiedo allora, quanto è autobiografico questo libro?”
A. CHIARIONI: “Beh, Diego rispecchia in parte quello che io sono e in parte quello che vorrei essere. Credo sia uno schema classico, infatti mi è capitato parecchie volte di leggere romanzi in cui l’io narrante è l’alter ego dell’autore, altre volte invece è l’esatto opposto”.
AB: “Diego è quasi un seduttore seriale, e talvolta questo gioco lo propone anche in presenza della moglie, che per contro ama fare la civettuola. La conseguenza è un inevitabile balletto delle gelosie che plasma l’equilibrio della coppia. E’ questa la spia di un’imminente crisi tra i due?”
A. CHIARIONI: “Quello tra Jenny e Diego è un rapporto fatto di complicità e di intimità fisiche che un po’ compensano le differenze che poi via via affiorano nel romanzo. Questo equilibrio è l’antefatto della storia ed è un quadretto familiare in stile Mulino Bianco, anche favorito dalle meraviglie del luogo in cui i due sono in vacanza con il figlio, cioè la Sardegna. E’ una immagine tipica di alcune famiglie benestanti di fine anni Novanta, dove dietro una felicità più patinata che reale si celano nodi, che prima o poi sono destinati ad arrivare al pettine, generando sorprese”.
A. CHIARIONI: “Scrittore e giornalista, Diego è un uomo benestante poco più che trentenne, tipicamente metropolitano e milanese. Cerca il successo e la mondanità, ma non ha smesso di essere un sognatore. Sicuramente è ancora in cerca del suo personale equilibrio”.
AB: “Che tipo è Jenny, la moglie?”.
A. CHIARIONI: “Jenny è un personaggio che ho costruito -passami il termine- in laboratorio, a differenza degli altri soggetti del libro ispirati invece a persone reali. E’ una bella donna, concreta, sicura di sé e completamente emancipata... rappresenta lo stereotipo della donna perfetta degli anni Novanta. E' capace di essere l’amante ideale, di fare la manager, di essere una mamma premurosa e affettuosa, l’amica brillante delle uscite mondane. E’ una persona che sa sentirsi sempre nelle migliori condizioni in qualunque posto si trovi, aggiungo, a differenza del marito. E' troppo perfetta...per Diego”.
AB: “Perché Diego sceglie di tornare con Jenny in luoghi a lui così cari che possono fargli affiorare pericoloso ricordi?”
A. CHIARIONI: “Forse perché mette in discussione se stesso inconsciamente. Però lui in quei luoghi era stato bene e vuole rivivere quelle belle sensazioni con le persone che ama, con la famiglia”.
AB: “Nicole sembra molto schermata, fa molte domande per riempire i silenzi e per non parlare di sé, per non mostrarsi fragile o semplicemente in imbarazzo. Che tipo di donna è?”
A. CHIARIONI: “Nicole richiama molto una persona in particolare che ha fatto parte della mia vita ed è molto diversa da Jenny, anzi fa proprio parte di un universo femminile differente: è inafferrabile, sfuggente, apparentemente fragile e misteriosa. E' il personaggio intorno al quale gira la storia, l'elemento scatenante di tutto ciò che accade. E' la persona a causa della quale niente sarà più come prima ...”.
AB: “Giada, la donna che compare a metà del romanzo, invece, viene descritta come una gioiosa macchina da sesso. Cosa mi dici in proposito?”
A. CHIARIONI: “Oltre ad essere molto sensuale, Giada è una persona paziente e positiva, che non porta rancore e che ha un bel carattere. Come dicevo prima, ho preso spunto da una donna che ho conosciuto nella vita reale. L’obiettivo che mi ero dato creando questo personaggio era quello di proporre un altro tipo di donna che fosse diversa da Jenny, ma anche da Nicole e che mostrasse quanto ampia e variegata sia l’altra metà del cielo”.
AB: “Nel romanzo gli atti sessuali vengono descritti senza troppe velature e hanno uno spazio direi centrale. E’ così importante il sesso per Diego?”
A. CHIARIONI: “Il romanzo gira intorno a rapporti di coppia. Ho pensato che la parte sessuale non potesse essere lasciata totalmente all’immaginazione e che l’autore dovesse in qualche modo declinarla, cercando di trasmettere la passione e il sentimento nella sua essenza più vera. E’ un erotismo non volgare comunque, anche se ci sono delle parti piuttosto piccanti”.
AB: “Ad un certo punto, Diego è preda di un attacco di collera con il suocero. Come mai? Cosa scatta nella mente del protagonista?"
A. CHIARIONI: “Il suocero è un uomo che Diego ammira, ma nello stesso tempo detesta: è sicuro, concreto, di successo, stabile, lineare, manicheo. E’ un uomo che gli tocca i nervi scoperti perché in un certo senso lo costringe a fare il bilancio della sua vita lavorativa e familiare. E’ l’individuo che più lo fa sentire nel posto sbagliato. Sotto certi aspetti assomiglia molto a Jenny, che non a caso è sua figlia”.
AB “Davvero il destino in amore è così beffardo da farti incontrare la persona giusta nel momento sbagliato?"
A. CHIARIONI: “Sì, questo è il senso del racconto e il motivo ispiratore del romanzo. Il messaggio è che non basta trovare la persona giusta, ma bisogna trovarla anche nel momento giusto. Il finale è sorprendente, ma in sostanza conferma questo messaggio”.
AB “Quando il prossimo libro?”
A. CHIARIONI: “Lo scrittore Andrea De Carlo per me è una continua fonte di ispirazione. C’è un progetto in corso e non ti nascondo che ho già scritto qualcosa. Vediamo. Chissà”. (SORRIDE E SALUTA)
Aris Baraviera, Milano, 30 ottobre 2020.
L’intervista ad Andrea Chiarioni, il nostro personaggio del momento
AB: “Andrea, che tipo di runner sei?”
Andrea: “Vedi, la corsa è uno spazio che mi ritaglio per ritrovare la concentrazione, per ossigenarmi il cervello, per scaricare lo stress. Mi alleno due volte la settimana, se posso anche tre. La mia dimensione è quella delle gare non competitive: le Tapasciate, la Sant’Ambrusin di Cassina Amata -- a cui non manco mai -- la Run 5,30 -- che ha il fascino della Milano che si risveglia …”.
AB: “Usi abbigliamento tecnico? Fai uso di cardiofrequenzimetro o di altra strumentazione?”
Andrea: “Vesto abbigliamento semplice, anche se non disdegno gli indumenti termici in inverno. Fino a due anni fa usavo l’applicazione Runtastic, ora sono più rilassato …”. (SORRIDE)
AB: “La tua dieta alimentare è funzionale al Running?”
Andrea: “Ha un taglio salutista, ma non seguo diete particolari: a colazione bevo un frullato e durante la giornata consumo diversi infusi energizzanti e drenanti. A parte questo, mangio di tutto e credo di avere un’alimentazione piuttosto equilibrata. Inoltre, da buon veneto d’origine quale sono, bevo regolarmente del buon vino”. (SORRIDE)
AB: “Attualmente pratichi anche altre attività sportive?”
Andrea: “Gioco a calcetto con gli amici quasi tutte le settimane. Non dovrei, avendo un crociato rotto e l’altro operato nel 2003 … però grazie al running riesco a conservare una muscolatura tonica che aiuta molto il ginocchio, unitamente alla ginocchiera che abitualmente indosso. Per cautela ho chiuso con lo Sci Alpino, che ora pratico solo sulle piste da sci baby per insegnare la tecnica ai miei figli”.
AB: “Sappiamo già che ti alleni prevalentemente al Parco Lago Nord, comunemente detto ‘Cava’. Lo fai in solitaria o ci vai con qualcuno?”
Andrea: “Mi alleno quasi sempre da solo, anche perché lo faccio in orari un po’ insoliti: qualche volta dopo aver portato i bimbi a scuola, spesso a mezzogiorno oppure anche alle 3 del pomeriggio. Proprio perché in genere amo stare in mezzo alla gente, quando vado a correre preferisco invece stare solo ...”
AB: “Ci spieghi perché ci hai detto che frequenti di più la Cava rispetto a Villa Bagatti Valsecchi e al Parco delle Groane?”
Andrea: (RIFLETTE UN ATTIMO PRIMA DI RISPONDERE) “Mah, sai… la Cava è un ambiente rilassante nel verde e si concilia molto con l’obiettivo di staccare. La qualità della natura è notevole e quello che c’è qui non c’è da altre parti: trovi alberi che sono tipici della Macchia Mediterranea; l’evoluzione al bello che ha avuto negli anni questo parco è davvero notevole. A mio avviso questo è un posto che soddisfa sia gli sportivi che lo frequentano durante la settimana - e mi riferisco non solo ai runner, ma anche ai pescatori che vengono qui per il laghetto – sia alle famiglie che lo popolano nei weekend. Io quando vengo qui lo faccio partendo da casa correndo, senza l’ausilio della macchina. Il parco dista 3,5 km da dove abito. Conoscendo sia la distanza che il perimetro del parco, riesco a misurare i km percorsi senza bisogno della tecnologia. In genere faccio in tutto 10,6 km, massimo 12,4 e minimo 8,8. Prediligo il percorso classico ad anello, non faccio mai i saliscendi né i gradoni”.
AB: “C’è qualche aneddoto divertente che ci vuoi raccontare sulla Cava?”
Andrea: “C’è n’è uno che diverte molto più i miei figli e molto meno il sottoscritto: una volta sono rovinosamente caduto mentre correvo e mi sono sbrandellato la tuta, sporcato di terra e insanguinato mani e ginocchia. Il tutto è avvenuto sotto lo sguardo incuriosito di un signore anziano seduto sulla panchina che si è gustato lo spettacolo senza proferire parola, né mostrare uno straccio di empatia (RIDE). Sono tornato a casa in condizioni davvero pietose e credo che i miei vicini di casa quella volta abbiano pensato che avessi appena litigato con un pitbull”. (ADESSO RIDE SINGHIOZZANDO)
AB: “Utilizzi le fontanelle e i bar del parco? Quali sono gli aspetti del parco che miglioreresti?”
Andrea: “Beh, forse un posto così meriterebbe di avere degli orari di ingresso più ampi, un’illuminazione serale, più eventi. Credo che ci siano forti margini di miglioramento nell’ambito dei servizi: forse il bar vicino al ponte pedonale andrebbe privatizzato perché così come è adesso sembra quello di un oratorio. Quando abitavo a Parma andavo spesso a mangiare al Parco dei Conigli di Collecchio, lì c’è un bar bellissimo dove fanno dei panini favolosi. Quando mangio alla Cava è perché mi porto il cibo da casa … e alle fontanelle non mi fermo mai”.
AB: “Ci puoi spiegare meglio che lavoro fai? E quando ti è utile la leva creativa del running?”
Andrea: “Faccio il consulente e il mio cliente è il centro commerciale. Propongo eventi e strumenti di comunicazione e marketing. Preparo analisi e preventivi, mando email, telefono, preparo progetti e brief. Da casa preparo sempre anche la logistica dei miei spostamenti nell’ottica di ottimizzare i viaggi. Per gli eventi a tema, che propongo a seconda del luogo e del periodo, ho assolutamente bisogno del running, momento di raccoglimento che mi consente di ritrovare concentrazione e creatività …”
AB: “Posso chiederti se hai rimpianti e cosa cambieresti del tuo passato?
Andrea: “Tanti anni fa ho superato brillantemente uno stage selettivo, a Chiesa Valmalenco. Era un corso per diventare animatore di villaggio turistico. Una prova che si rivelò fine a se stessa purtroppo, perché non ebbi la forza di mollare il lavoro, forse per eccessivo senso di responsabilità. Ecco, tornassi indietro lo farei prima quel corso … Lo frequenterei dopo aver concluso il percorso di studi”.
AB: “E cosa non faresti mai che altri runner fanno?”
Andrea: “Non farei mai le levatacce come quelli che si alzano alle 5 per andare a correre. La corsa è un piacere, ma se ti alzi all’alba che piacere è…?”. (SORRIDE E SALUTA CORDIALMENTE)
Aris Baraviera, Milano, 11 ottobre 2020.
Conosciamo un nuovo personaggio: Andrea Chiarioni – Parte prima.
In una delle più celebri battute di un famoso film, Forrest Gump pronuncia queste parole:
“Mamma diceva sempre che dalle scarpe di una persona si capiscono tante cose, dove va, cosa fa, dove è stata”.
L’affermazione e il relativo pensiero sono condivisi oggi dai vicini di casa di Andrea -- un folto gruppo di parenti veneti -- quando lo incrociano davanti al portone di ingresso: se indossa le scarpe eleganti vuol dire che sta partendo per una trasferta di lavoro, se calza le scarpe comode sta andando a ritirare i figli, mentre se porta quelle da Running sta andando a correre alla Cava di Paderno …
Andrea Chiarioni, 52 anni trascorsi tra Milano e l’Italia, è laureato in Economia e Commercio all’Università Cattolica del Sacro Cuore, presso la sede ambrosiana. Fino a due anni fa è stato manager di una multinazionale nel settore del benessere e in una del retail, settori che oggi segue ancora, pur svolgendo un’attività solo consulenziale. Dopo aver lavorato e vissuto a Reggio Emilia, Parma, Grosseto, Roma e Palermo, è tornato ad abitare nel milanese vicino alla famiglia di origine e precisamente a Cassina Amata di Paderno Dugnano.
Felicemente sposato e padre di tre bimbi meravigliosi, Andrea ha sempre coltivato la passione per lo sport. Ancora oggi ama raccontare di quella volta che, nell’estate del 1983, mollava gli amichetti in spiaggia e correva a casa per vedere la finale dei 10.000 m. vinta da Alberto Cova ai mondiali di atletica di Helsinki. Sorride ancora quando racconta di quel telecronista Rai che impazziva dalla gioia vedendo la progressione dell’atleta italiano negli ultimi duecento metri e lo accompagnava a modo suo verso il traguardo: “Cova, Covaa, Covaaa, Covaaaa, Covaaaaa, Covaaaaaa, Covaaaaaaa … Magnifico!”.
Andrea ama soprattutto il calcio e l’Inter e ne condivide gioie e dolori con un gruppo di storici amici, naturalmente tutti interisti.
A livello amatoriale ha praticato il Calcio, il Calcio a 7, il Calcio a 5 e lo Sci Alpino. In età adulta ha poi scoperto il Running, un amore tardivo ma profondo, con il quale convive ormai stabilmente da parecchi anni, nonostante i problemi alle ginocchia.
L’altra grande passione di Andrea è sempre stata la scrittura. A riprova di questo possiamo raccontare un aneddoto di 20 anni fa: un giorno, improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, decide di lasciare il lavoro già avviato, per seguire i sentieri segreti e inesplorati del cuore, che lo portano a muovere i primi passi verso la professione del giornalista.
Talvolta però gli ideali hanno strane proprietà, e fra le altre anche quella di trasformarsi nel loro contrario. Ecco infatti che Andrea in quella redazione giornalistica si sente in gabbia: sfruttato, sottopagato e privato di ogni minima libertà creativa ed espressiva. E allora decide di scappare perché non ha nessuna voglia di fare quel tipo di gavetta, forse più per amore della libertà, che per mancanza di umiltà. O forse perché lì più che un giornalista si sente un “marchettaro” che promuove la vendita di prodotti. E mentre fugge da quell’ufficio angusto, dentro di lui riecheggiano le parole di Red, personaggio interpretato da Morgan Freeman nel film “Le ali della Libertà”:
“Alcuni uccelli non sono fatti per la gabbia. Questa è la verità. Sono nati liberi e liberi devono essere. E quando volano via ti si riempie il cuore di gioia perché sai che nessuno avrebbe dovuto rinchiuderli”.
Diversi anni dopo, Andrea si prende la sua rivincita creativa pubblicando il romanzo intitolato “L’Importanza del momento”. Un bel racconto ricco di emozioni, dove personaggi dai tratti familiari si intrecciano nella vita del protagonista. Un libro sui tempi dell’amore e sull’imprevedibilità del destino. Scorrevole e avvincente.
Per quanto riguarda il Running, Andrea è fermamente convinto che correre significhi liberarsi dalle tossine dello stress e appena può si ritaglia questi preziosi momenti come a volersi coccolare e prendersi cura di sé. Quando si allena, inizia concentrandosi sul movimento e sulla respirazione e poi via via sente il cervello che si ossigena. Quando la falcata comincia a diventare regolare, trovando un ritmo costante che si mantiene da solo, senza bisogno di starci troppo a pensare, ecco che accade la magia: si dimentica di quello che sta facendo, si dimentica la corsa e quasi si dimentica del corpo.
Non c’è più fatica perché le gambe viaggiano da sole. La testa si svuota, o gli si riempie di immagini che nulla hanno a che fare con il movimento. Entra in un territorio dove i pensieri viaggiano liberi e inizia a volare alto, concedendosi riflessioni ardite e pensando anche all’impensabile. Tanto in questo sogno c’è solo lui!
Quando viveva vicino a Palermo, era solito correre sulla spiaggia di Cefalù e lì si cimentava spesso sulla distanza della mezza maratona. Oggi si allena prevalentemente nei 10 km, quasi sempre alla Cava di Paderno, in alternativa al Parco delle Groane, oppure ancora alla Villa Bagatti Valsecchi, tra Paderno e Varedo. Correre per lui è fondamentale perché è solo così che si sente depurato dalle tossine della quotidianità e rigenerato, e solo così riesce a vedere le cose da una prospettiva diversa e sempre nuova. Paradossalmente, solo con la fatica della corsa, riesce a dare spazio a nuove idee e a far emergere quella creatività che gli serve per la sua professione. La corsa per Andrea è come una meditazione, un momento di raccoglimento, una preghiera laica e significa soprattutto mettersi in contatto con se stesso.
Quando Andrea gioca a calcetto mette la borsa in macchina con largo anticipo, e così facendo spiazza i suoi vicini di casa che, non vedendo la borsa né le scarpe con i tacchetti, brancolano nel buio non sapendo dove sia diretto. Certo, giocare a pallone è molto divertente … ma poi non arriva mai quello spunto nuovo che a lui serve davvero come il pane. La mente non si resetta, lo stress non si allontana e le nuove idee non emergono … Per far emergere la creatività c’è solo il Running.
Aris Baraviera, Milano, 30 settembre 2020.
Escursione in Toscana per Stefano Mossini con Avventure di un Giorno
AB: “Ben ritrovato Stefano, come è andata in Toscana?”
Stefano: “Benissimo, direi al di là di ogni rosea previsione!”.
AB: “Che tipologia di uscita è stata?”
Stefano: “Ecco, la definirei sostanzialmente una gita culturale, anche se abbiamo camminato molto e di buon passo. Devi sapere che Avventure di un Giorno ha tre anime: una votata al Trekking di montagna, una che predilige le camminate lungo i fiumi e poi la terza è quella di taglio culturale, che forse è la linea maggioritaria e prevalente e che più rispetta i valori fondativi del Gruppo”.
AB: “Se non ho capito male siete partiti di venerdì, è così? E in quanti eravate?”
Stefano: “Sì, siamo partiti venerdì mattina 18 settembre, siamo tornati due giorni dopo, domenica, nel tardo pomeriggio. Niente Trekking quindi, ma durante queste gite si cammina sempre parecchio, anche se gli spostamenti tra una meta e l’altra ovviamente vengono fatti in automobile. Il gruppo era composto da 7 persone: cinque maschi e due femmine. Quattro persone dalla Liguria, due da Parma e una da Mantova”.
AB: “Quali le prime tappe?”
Stefano: “La prima tappa è stata al sito costituito dall’Eremo di Monte Siepi e dall’Abbazia di San Galgano, nel comune di Chiusdino, a circa 30 km da Siena. Qui c’è la spada di San Galgano, santo e cavaliere medievale del XII secolo, che in penitenza si ritirò dalla vita sociale per condurre la propria esistenza da eremita. Il sito è di carattere cistercense ed è stato costruito proprio attorno alla spada conficcata nella roccia dal santo. Ho apprezzato molto questa visita”.
AB: “E dopo dove vi siete diretti?”
Stefano: “Sempre a Chiusdino abbiamo visitato il Museo Civico e Diocesano D’Arte Sacra, poi siamo andati a vedere il vero Mulino Bianco”.
AB: “Cioè?”
Stefano: “Sempre nel comune di Chiusdino c’è un agriturismo denominato Il Mulino delle Pile, che dal 1990 la Barilla ha utilizzato come icona per le sue pubblicità. Però, in via confidenziale (RIDE), posso dirti che il vero mulino non è bianco, ma è in pietra/sasso. Bel posto comunque!”.
AB: “Siamo ancora al primo giorno con il racconto, giusto?”
Stefano: “Sì, siamo ancora alla mattinata di venerdì. Nel pomeriggio poi abbiamo visitato Siena e in particolare il Duomo, cioè la spettacolare Cattedrale Romanico-Gotica. Ho apprezzato molto le opere d’arte che contiene e la visita alla cima del campanile. Siamo stati anche nel Battistero e prima di sera abbiamo fatto una puntatina anche a San Gimignano, cittadina dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco”.
AB: “Anche il sabato è stato così intenso?”
Stefano: “Sì direi proprio così. In mattinata siamo andati a visitare la Certosa di Calci, che è a 10 km da Pisa. E’ un ex monastero certosino molto grande. Se non ricordo male è stato costruito tra il 1600 e il 1700. Qui trovi dei bellissimi stralli lignei dei monaci e una notevole parete intarsiata a marmi, poi anche degli affreschi. Usciti da qui ci siamo diretti verso Vicopisano, che è a metà strada tra Pisa e Firenze. Vicopisano è un borgo situato tra l’Arno e il Monte Pisano ed è famoso per essere stato molto conteso in età medioevale e rinascimentale dalle città di Firenze e Pisa. La storia del borgo mi ha veramente mosso una grande curiosità. Qui mi riservo di fare i miei approfondimenti …”. (SORRIDE)
AB: “E poi arriviamo a domenica?!”
Stefano: “Macché domenica! (SORRIDE E SCUOTE LA TESTA) Sempre di sabato siamo andati alla Miniera di Caporciano, a pochi chilometri da Montecatini Val di Cecina. Qui già in epoca etrusca si estraeva rame e gli scavi sono poi continuati fino al 1907. La miniera ha dato il nome alla società chimica Montecatini, che poi fondendosi con Edison ha creato il colosso Montedison. Questo luogo è museo delle miniere dal 2003. I lavori per l’ampliamento delle parti visitabili sono finanziati dall’Unione Europea. Attualmente si può scendere solo fino al primo dei dieci piani sotterranei che caratterizzavano il luogo. La visita è guidata. Prossimamente saranno resi visitabili altri tre piani della miniera, che quando era attiva raggiungeva una profondità massima di 350 metri”.
AB: "Come si scende sottoterra? E sono larghi i cunicoli?”
Stefano: “Ci sono degli scaloni che portano giù … I cunicoli sono larghi circa 1,5 metri e alti 2. Sotto si vedono ancora delle rocce rossastre, però non ci sono più vene di rame e per tale ragione la miniera è abbandonata da oltre cento anni”.
AB: “La gita finisce qui?”
Stefano: “No, perché sabato pomeriggio c’è stato anche spazio per una visita a Pontedera, prima di recarci in agriturismo per la cena. Il giorno successivo siamo stati invece a Volterra, bellissima città medievale e fortificata e da lì siamo poi ripartiti per tornare a casa”.
AB: “Mi sembra di capire che stavolta il Trekking lungo i fiumi non ti sia mancato più di tanto, è così? E cosa ti porti a casa da questa trasferta in Toscana?”
Stefano: “Sì è così, mi porto a casa una bella esperienza perché ho avuto modo di conoscere dei luoghi veramente interessanti. Mi porto dietro anche una bella sensazione di serenità e piacevolezza che deriva certamente dall’armonia del gruppo. Non vedo l’ora di fare altre gite culturali … del resto non si vive di solo Trekking!”.
Aris Baraviera, Milano, 28 settembre 2020.
L’intervista a Veronica Compagnoni, Accompagnatore di Media Montagna
AB: “Come si vive ad Arco?”
Veronica: “Ah guarda, è un piccolo paradiso…è un paese a pochi chilometri da Riva del Garda e Torbole e in pochi minuti si arriva al Lago. Ecco, appena l’ho visto mi è subito piaciuto tantissimo … Dico così perché io sono originaria della Valtellina e sono arrivata qui da grande“. (SORRIDE)
AB: “Come si chiamano gli abitanti di Arco?”
Veronica: “Arcensi”.
AB: “Vai spesso a Riva del Garda?”
Veronica: “Sì, mi capita spesso di andarci. Riva del Garda attira turisti perché è una cittadina chic, con ottimi ristoranti ed eleganti negozi per lo shopping. Arco invece offre tantissimo per lo sport outdoor ed è l’ideale per chi ama le attività legate alla montagna”.
AB: “Dove abitavi prima?”
Veronica: “Abitavo a Madonna dei Monti, una frazione del comune di Valfurva. E’un paesino sulle pendici del Monte Reit, all’inbocco della Val Zebrù. Praticamente ero a pochi chilometri da Bormio”.
AB: “In che anno sei nata?”
Veronica: “Sono nata nel maggio del 1987”.
AB: “E dove hai studiato?”
Veronica: “Ho fatto la triennale di Agraria ad Edolo, in provincia di Brescia, all’Università della Montagna, è un polo innovativo che fa parte dell’Università di Milano. Nel frattempo, tramite il progetto Erasmus sono stata sei mesi a Vienna, dove ho conosciuto una ragazza che mi ha parlato benissimo del campus di Padova. Ed è così che è nata poi l’idea di frequentare lì la magistrale in Scienze Forestali ed Ambientali”.
AB: “E dove nasce l’idea di fare l’Accompagnatore?”
Veronica: “L’idea embrionale nasce a Edolo, dove ricordo che -- navigando in internet -- mi ero imbattuta nel termine di ‘Accompagnatore di Media Montagna’, che prima mi era assolutamente sconosciuto. Dopo aver fatto un po’ di ricerche su tale professione, avevo messo da parte la cosa, anche perché stavo studiando. Dopo qualche anno, però, quando ho conosciuto quello che sarebbe poi diventato mio marito – che sognava di fare la Guida Alpina -- ho rispolverato l’idea che via via si è rafforzata nel tempo”.
AB: “Da quando sei Accompagnatore di Media Montagna (AMM)?”
Veronica: “Dal 2017. Ho fatto il corso nel 2016, quando lavoravo come dottore forestale in Trentino”.
AB: “Cosa fa un dottore forestale?”
Veronica: “Beh … io facevo rilievi in bosco, misurazioni attraverso metodi della stima del legname presente in bosco, descrizione del popolamento forestale. Le finalità erano perlopiù quelle di fornire agli enti territoriali delle stime di quanto legname si potesse estrarre nel decennio. Si trattava di costruire un piano di gestione e trovare in sostanza il punto di equilibrio tra l’esigenza di estrarre legname e il rispetto dell’ambiente. Io poi come agronomo mi sono dedicata ai controlli nei vigneti, ho rilevato gli alberi monumentali e altre cose ancora. Ho continuato a fare questo lavoro praticamente fino al 2018, pertanto per quasi due anni ho viaggiato in parallelo tra la vecchia attività -- che poi ho lasciato -- e la nuova che era appena nata e che già mi piaceva tantissimo”.
Veronica: “Come formazione direi che la mia impronta prevalente è sicuramente quella relativa alla vegetazione, poi viene la lettura del paesaggio e le sue trasformazioni”.
Veronica: “Esattamente, per legge l’AMM può muoversi su terreni montani anche rocciosi, ma che non prevedano l’utilizzo di attrezzature. Niente kit ferrata, niente ramponi, non si va su ghiaccio, né su neve. La montagna con attrezzatura è riservata alle Guide Alpine, che hanno una formazione che copre anche quegli ambiti”.
AB: “Lo stereotipo del montanaro ci descrive un soggetto che sta bene anche da solo e che caratterialmente è un po’ orso, tu come ti vedi? Come ti relazioni durante le escursioni?"
Veronica: “Beh dai … (RIDE DI GUSTO), la parola chiave è equilibrio. Va bene che a volte sento davvero il bisogno di stare da sola o di girare per i monti con il cane, ma durante le escursioni so anche essere un ‘animale’ sociale e mi piace molto interagire con gli altri ... cioè, mi viene spontaneo. Mi sento a mio agio con il gruppo e credo di essere capace anche di capire le persone che ho di fronte, anche per interpretare un po’ quello che si aspettano da me. In genere comunque io non voglio appesantire l’escursione con nozioni troppo tecniche, cerco di rendere tutto semplice e naturale perché il bello di interagire con la natura, soprattutto in montagna. Anche i silenzi, l’ascolto delle persone, il guardarsi attorno e il chiacchierare del più e del meno fanno parte di questo. E poi il divertimento non è affatto secondario durante queste uscite”. (SORRIDE)
AB: “Posso chiederti qual è il costo per partecipare alle escursioni che organizzi tu?”
Veronica: “In genere l’escursione costa 30 euro, ma dipende dalle tempistiche. Se propongo escursioni di mezza giornata faccio metà prezzo. Altre volte c’è un leggero sovrapprezzo se l’itinerario prevede l’inclusione di servizi come la consumazione enogastronomica o il tour con gli asinelli o altro ancora”.
AB: “Domanda pesante: siamo ancora in tempo per salvare il pianeta dal surriscaldamento e dall’anidride carbonica?”
Veronica: “E’ un tema ricorrente durante le escursioni, specie quando si passa davanti ai ghiacciai che si stanno ritirando. Lo stile di vita che abbiamo deve cambiare e tutti dobbiamo fare qualcosa perchè l'equilibrio con il pianeta si è già rotto. Purtroppo i modelli economici non si cambiano dall’oggi al domani, ma è necessario fare in fretta!”.
AB: “Che sensazione hai sul Covid 19? Sconfitta la pandemia in corso ne avremo altre per via delle sistematiche violazioni attuate dall’uomo agli ecosistemi?”
Veronica: “No dai, d’accordo che dobbiamo salvaguardare gli ecosistemi, ma non fasciamoci la testa in anticipo …ce la faremo!”
AB: “Domanda di alleggerimento: qual è il tuo libro preferito?”
Veronica: “Beh, posso dirti l’ultimo che ho letto e che mi è piaciuto: ‘Parete nord’ di Heinrich Harrer. Nel luglio del 1938 il grande scalatore Harrer, insieme ad altri quattro uomini, tenta di raggiungere la vetta svizzera dell'Eiger dalla celebre e impervia "Parete Nord". Harrer, che riuscirà per primo nell’impresa, racconta in questo libro la sua avventurosa scalata spiegando perchè le spedizioni precedenti hanno tragicamente fallito”.
AB: “La montagna può sostituire lo psicologo?”
Veronica: (SEMBRA SORPRESA DALLA DOMANDA) “Beh quello che posso dirti io … è che stare in mezzo alla natura significa anche riprendere il contatto con se stessi, ricaricarsi e ritrovare il proprio equilibrio …”
AB: “Sogni nel cassetto?”
Veronica: “Un viaggio lungo … in Nepal”. (SORRIDE E SALUTA)
Aris Baraviera, Milano, 20 settembre 2020.
Dopo la copiosa pioggia del 30 agosto, Stefano Mossini torna sul Trebbia con Avventure di un giorno
Lunedì sera 9 settembre alle 21,00 Stefano è stanchissimo, assonnato e bruciacchiato dal sole preso ieri sul Trebbia. E’ disteso sul divano e sta aspettando una telefonata che ormai probabilmente arriverà solo quando lui sarà già sopraffatto dal sonno.
La gita della domenica, che lui aveva proposto agli amici di Avventure di un giorno, è terminata molto tardi per via della cena consumata sulla strada del ritorno presso un ristorante a sud di Piacenza, sulla famosa Strada Statale 45 che collega Rivergaro al capoluogo emiliano.
Stefano è soddisfatto dell’escursione appena conclusa, nonostante qualche variazione al programma e qualche piccolo inconveniente. Mi spiega che la filosofia di Avventure di un giorno è proprio quella di avere un buon spirito di adattamento, del ricercare il piacere di stare insieme, del godere nel passare del tempo in contatto con la natura, senza pretendere che tutto fili liscio senza sbavature.
Stefano mi dice anche che aderire alle iniziative di Avventure di un giorno non significa fruire di un servizio, anche perché non c’è un pagamento corrisposto. Aderire significa invece aver voglia di interagire socialmente fuori dal contesto urbano. L’avventura viene quindi intesa come ricerca di soluzioni, flessibilità, amore per la natura e spiccato senso dell’altruismo.
Praticare il trekking lungo il greto del Trebbia significa aver voglia di socializzare lontano dai soliti posti chiusi, lontano dagli schemi noti. Tutto questo risponde in sostanza ad una continua ricerca di novità e soprattutto ad un forte senso di libertà.
Il Trebbia nasce vicino a Genova, sul Monte Prelà (la cui vetta è a 1400 metri), ad un’altezza di circa 800 metri. Scorre verso nord-est fino a quando diventa un affluente del Po nei pressi di Piacenza, dopo aver percorso circa 120 km.
La parte del fiume che regala i migliori colori e le migliori spiagge è il tratto che va da Marsaglia a Bobbio. E’ qui a Bobbio che il gruppo composto da 13 persone (7 uomini e 6 donne) più il cane di Stefano, si era goduto il riposo pomeridiano sulla spiaggia, dopo aver camminato intensamente per tutta la mattinata. E’ qui che si erano tuffati in acqua, ed è qui che Stefano si è abbrustolito le spalle. Il pranzo al sacco era stato consumato invece nel posto in cui avevano lasciato le auto, cioè nei pressi di San Salvatore.
Le distese ciottolose dell’ampio letto e greto del Trebbia costituiscono una collezione completa delle rocce che formano i versanti di questa splendida valle appenninica, la cui peculiare storia geologica è ben nota al mondo scientifico. I ciottoli calcarei (composti cioè principalmente da minerale di calcite) sono caratterizzati da una struttura fine e omogenea attraversata da venature bianche di calcite e hanno superficie liscia e ben levigata e forma regolare, appiattita, ovoidale oppure allungata. I ciottoli di arenaria (cioè quelli cementificati dalle sabbie in epoche diverse) sono perlopiù discoidali, irregolari con la superficie scabra per la presenza di granelli di sabbia. Le tonalità prevalenti sono il grigio chiaro, il giallo-bruno, il bianco, ma ci sono anche ciottoli neri, nero-bluastri, rosso cupo e marrone scuro.
Camminare sul letto di questo fiume non è agevole, perché mette a dura prova sia le caviglie sia le ginocchia e rallenta di molto l’andatura. Per questo il tempo di percorrenza si era parecchio dilatato rispetto alle previsioni iniziali, anche perché il gruppo si era perso in chiacchiere, complice anche un clima fin troppo rilassato tra i partecipanti della spedizione.
In cammino dalle 9,30 con l’obiettivo di arrivare a Marsaglia, verso le 12,00 il gruppo aveva deciso di tornare indietro pur avendo percorso solo 6 km verso sud, cioè verso la sorgente. La decisione era stata presa per poter pranzare in tempi ragionevoli.
In mattinata il gruppo aveva lasciato le auto nei pressi di San Salvatore, scendendo verso il greto dai sentieri ben tracciati ma comunque abbastanza impegnativi. Stefano e gli altri avevano deciso di non portarsi dietro lo zaino con il cibo, optando solo per il ricambio delle scarpe che inevitabilmente sarebbero state poi inzuppate dalle acque del Trebbia.
Per i parmigiani la giornata era iniziata alle 7,15. Il ritrovo con il resto del gruppo era stato fissato per le 8,30 a Rivergaro. Comprensibile pertanto la stanchezza di Stefano che il giorno dopo si rammarica non tanto per non aver centrato l’obiettivo di Marsaglia, piuttosto per non aver trovato quella spiaggetta bianca che aveva promesso di mostrare agli amici.
Tra i più felici per la giornata trascorsa sul Trebbia c’è sicuramente Cristian, il figlio di Stefano, il più giovane del gruppo con i suoi 19 anni, fresco di maturità appena conseguita. Cristian è felice perché ha avuto la possibilità di chiacchierare con tutti i partecipanti alla gita e ha potuto udire racconti gradevoli e storie che certamente meritavano di essere ascoltate.
Aris Baraviera, Milano, 12 settembre 2020.
(Nella foto, il tramonto su Sestri Levante visto da Punta Manara)
Stefano Mossini ci racconta le sue ultime uscite
AB: “Ben ritrovato Stefano! Nell’ultima intervista ci avevi parlato delle cascate, oggi cosa ci racconti?”
Stefano: “Beh, sono successe un po’ di cose dall’8 agosto scorso… “. (Sorride)
AB: “Cioè?”
Stefano: “Il 12 agosto ho aderito ad una iniziativa degli ‘Appiedati’, che è un gruppo di Parma che organizza delle belle camminate e degli eventi culturali. La gita era stata organizzata dalla Proloco di Bore al quale poi si sono aggiunti anche gli amici di ‘Avventure di un Giorno’. Bore è un comune situato a nord della valle del Ceno, vicino alla provincia di Piacenza ed è a circa 800 metri sul livello del mare. Siamo arrivati lì prima del tramonto, con la luce, poi quando è sceso il buio ci siamo soffermati a guardare in cielo le stelle cadenti. Il tragitto del ritorno, dal punto di osservazione fino alle nostre auto, è stato illuminato dalla luce delle torce di cui ci siamo dotati per l’occasione”.
AB: “Quanti eravate?”
Stefano: “Circa 100 persone …una bella partecipazione all’evento direi!”.
AB: “A Ferragosto invece che cosa hai fatto?”
Stefano: “Ero a Sestri Levante con gli amici di ‘Avventure di un Giorno’. Abbiamo fatto un trekking notturno fino a Punta Manara. Cioè, siamo partiti alle 19 per goderci il tramonto e poi siamo tornati in notturna. Punta Manara è un promontorio di forma triangolare sul Golfo del Tigullio, che va da Sestri Levante e Riva Trigoso, in provincia di Genova. E’stato un weekend bellissimo!”.
AB: “Mi avevi accennato che avresti raggiunto anche la vetta del Monte Cusna, l’hai fatto?”
Stefano: “Sì, sono salito sulla cima del monte con alcuni amici di Reggio Emilia, credo fosse il 20 agosto. Il primo tratto di strada l’abbiamo fatto in funivia, il resto camminando lungo il sentiero. Il Monte Cusna è in provincia di Reggio Emilia, verso la Toscana. La cima è a 2120 metri di altezza”.
AB: “Che altre gite hai fatto?”
Stefano: “Il 23 agosto con gli amici dell’associazione ‘Trekking Taro e Ceno’ sono stato sul Monte Zatta per ammirare il tramonto e per camminare in notturna. Eravamo in 12, un gruppetto davvero molto positivo e abbiamo fatto un percorso davvero panoramico”.
AB: “Scusa ma dove si trova il Monte Zatta?”
Stefano: “Beh, è nell’Appennino Ligure, tra la Valle Sturia, la Valle del Taro, la Valle Graveglia e la Val di Vara. L’altezza massima della cima del monte credo sia 1400 metri, la cima maggiore è quella di Levante, che è un po’ più alta di quella di Ponente e di quella Centrale”.
AB: “Se non erro il 27 agosto hai partecipato alla bella camminata nei Boschi di Carrega, giusto?”
Stefano: “Sì, corretto, la gita era organizzata dal gruppo dei ‘Gialli’, parmigiani che in genere organizzano camminate, Trekking ed eventi culturali. Prima si chiamavano ‘Passi On Parma’ e con loro in passato ho fatto parecchie uscite, come ad esempio la camminata di 12 km attorno alla città, che viene percorsa con un ritmo piuttosto sostenuto nonostante l’età media dei partecipanti non sia bassissima …”.
AB: “Com’è il posto?”
Stefano: “Molto bello, il Parco naturale regionale dei Boschi di Carrega è un’area protetta di oltre 2000 ettari in provincia di Parma, precisamente tra Collecchio e Sala Baganza. Il territorio è prevalentemente boschivo e ricco di varietà di flora e di fauna. All’interno del parco c’è anche il famoso edificio denominato ‘Il Casino dei Boschi’. Costruito nel Settecento fu comperato poi da Maria Luisa d’Austria agli inizi dell’Ottocento. La villa assunse uno stile neoclassico e il parco circostante divenne un giardino all’inglese.
Tieni presente che la gita era programmata a partire dalle 19,30, per cui è stato un evento serale. Siamo tornati alle macchine verso mezzanotte, dopo aver percorso 15 km tra i sentieri sterrati e dopo aver cenato in un vecchio casolare …”.
Stefano: “32 persone, tra le quali parecchi over 60”.
AB: “E cosa ci dici della gita di ieri sul Trebbia?”
Stefano: “Ieri ci siamo divertiti – eravamo un bel gruppetto di 9 persone -- anche se la giornata è stata fortemente condizionata dal maltempo. La gita l’avevo proposta io agli amici di ‘Avventure di un Giorno’, e prevedeva che avremmo dovuto seguire il Trebbia partendo da Bobbio e arrivando fino a Marsaglia. Il programma prevedeva tra l’altro il pernottamento all’Ostello di Coli e la cena serale a Brugnello. Già dal primo mattino però la pioggia battente ci aveva fatto capire che la giornata non sarebbe andata come avremmo voluto. Dopo aver passeggiato a Bobbio in attesa di schiarite, che poi non ci sono state, ci siamo diretti a Brugnello dove siamo riusciti a convertire la cena in pranzo e ci siamo rifocillati, e soprattutto asciugati i vestiti e le scarpe. Nel pomeriggio poi siamo andati a Castell’Arquato dove abbiamo fatto una bella camminata nonostante la fastidiosa pioggerella. E prima di salutarci abbiamo cenato con quello che avevamo preparato per il pranzo al sacco”.
AB: “Perché non avete rinviato la gita visto il maltempo?”
Stefano: “Siamo alla fine di agosto e … io mi sento l’estate ancora addosso! Ho troppa voglia di stare all’aria aperta. La gente che partecipa a queste gite lo fa per vivere in contatto e in armonia con la natura e per socializzare. L’idea di rimanere a casa davanti alla TV ci fa intristire solo al pensiero. Per cui se la gita è programmata per quanto possibile si fa, al limite si cambia il programma, ma non si sta a casa. Diciamo che la partecipazione a questi eventi è davvero una filosofia di vita”.
Aris Baraviera, Milano, 31 agosto 2020.
Stefano Mossini ci racconta la gita dell’8 agosto di Avventure di un Giorno
AB: “E’ stata una bella gita?”
Stefano: “Sì, direi bellissima”.
AB: “Dove vi siete trovati?”
Stefano: “Il ritrovo a Parma era alle 7.15 per chi partiva da lì. Poi ci siamo trovati con gli altri a Rivergaro in provincia di Piacenza, dove abbiamo ‘ottimizzato’ le macchine”.
AB: “Cioè?”
Stefano: “Siccome eravamo in dieci abbiamo lasciato lì qualche auto e ne abbiamo utilizzate solo tre, anche in considerazione del fatto che le strade sono molto strette per arrivare in prossimità del percorso che porta alle cascate”.
AB: “Quindi avete lasciato le macchine dove inizia il percorso che porta alle Cascate del Perino?”
Stefano: “Sì, è così. Inizia in località Calenzano, che credo sia sotto il comune di Bettola, dove appunto abbiamo parcheggiato le auto. Da lì poi si fanno alcuni chilometri nel bosco e si arriva alle cascate. Il dislivello è di 250 metri, però il percorso è abbastanza impegnativo, cioè non è banale”.
AB: “Come sono quindi queste cascate?”
Stefano: “Le Cascate del Perino sono cinque e sono meravigliose. Noi abbiamo fatto il bagno sotto la Cascata Superiore, dove l’acqua che scende dalla roccia fa un salto di 17 metri. Lì sotto puoi nuotare, ma non tocchi perché il livello dell’acqua è piuttosto alto …”
AB: “L’acqua è pulita e limpida?”
Stefano: “Assolutamente, l’acqua è limpidissima e nella zona non c’è nulla né a livello di industrie né di allevamenti, per cui lì si è solo circondati dalla natura. Quando si arriva alle cascate, nasce subito il desiderio di buttarsi in acqua per fare il bagno. Forse il rischio è quello di essere troppo accaldati e di subire un notevole sbalzo termico, ma per fortuna il percorso a piedi è totalmente in ombra”.
AB: “Ma le cascate dove si trovano precisamente?”
Stefano: “Si trovano a Bettola in provincia di Piacenza, vicino al Passo del Cerro che divide la Val Trebbia dalla Val Nure. Il territorio è caratterizzato da un paesaggio che alterna tratti particolarmente dolci e modellati dalle coltivazioni, ad altri più impervi, e offre scenari sempre diversi ed interessanti. Nel suo medio corso, il torrente Perino mostra la connotazione più aspra, poiché il suo percorso, fino a qui lento e tranquillo, si rinserra improvvisamente in una stretta gola. E’ proprio in questo punto che ha inizio la parte più suggestiva della valle, in quanto la roccia presenta una dozzina di salti – cinque piuttosto importanti- che il torrente supera formando altrettante cascate naturali, la più alta delle quali -- la Cascata Superiore -- raggiunge i 17 metri di altezza. Le cascate si collocano nella parte centrale del corso ad un’altezza che va dai 600 ai 700 metri”.
AB: “Dove avete mangiato?”
Stefano: “Alla quinta cascata, il pranzo era al sacco. Subito dopo siamo ripartiti per tornare a Calenzano, quindi alle macchine”.
AB: “Prima hai detto che eravate in totale 10 persone, ho capito bene?”
Stefano: “Sì, 6 uomini e 4 donne. Dovevamo essere di più, ma qualcuno poi non è venuto. Tieni presente che l’8 agosto era un giorno da bollino nero -- forse l’unico giorno critico dell’anno dal punto di vista del traffico -- e qualcuno temeva proprio questo”.
AB: “Età media?”
Stefano: “Boh non saprei, forse cinquanta…”.
AB: “Non avevate una guida?”
Stefano: “Il gruppo Avventure di un Giorno non prevede la guida. Ognuno può proporre una gita, ci si documenta e via che si va... verso l'avventura. Non si tratta né di un'agenzia viaggi né di un'associazione, solo amici che dedicano il proprio tempo libero a proporre momenti di aggregazione gratuiti. Perlopiù le persone di questo gruppo sono di Parma, Mantova e Genova. La cosa più importante è mantenere sempre la cortesia che in genere si usa appunto tra amici. Per rispondere alla tua domanda, nella fattispecie la gita alle Cascate del Perino e alla Cascate del Carlone l’avevo proposta e preparata io”.
AB: “C’è stata armonia di gruppo durante l’avventura?”
Stefano: “Sì, direi decisamente. Il gruppo era composto da gente desiderosa di vedere e conoscere nuovi posti e dalla voglia di condividere questi momenti con altre persone. Non abbiamo rispettato interamente il programma che io avevo preparato a priori, ma ce lo siamo un po’ modellato anche in base alle esigenze e alle tempistiche del momento”.
AB: “E cosa mi dici della delle Cascate del Carlone, cioè della parte pomeridiana della gita?”
Stefano: “Dalle Cascate del Perino siamo tornati a piedi in località Calenzano, dove avevamo lasciato tre auto. Da lì in macchina siamo andati giù alla statale e poi verso Bobbio. Poi siamo saliti passando per strade strette fino a San Cristoforo, che è un antico borgo a 600 metri di altezza dove abbiamo nuovamente parcheggiato le auto. Il viaggio sarà durato credo quaranta minuti. Poi ci siamo incamminati sul sentiero che porta alle cascate. Ci sono numerose cascate e cascatelle e più sotto c’è un laghetto d’acqua termale con proprietà termominerali e una fonte salina. L’acqua del Carlone ha proprietà termali per l’alta concentrazione di minerali di sale. So che in particolare c’è molto magnesio…però non riesco ad essere più preciso”.
AB: “A che ora siete tornati?”
Stefano: “Nel tardo pomeriggio, credo fossero quasi le 19, il gruppo si è diviso: io ed altri ci siamo fermati a bere un aperitivo a Bobbio, mentre il resto del gruppo è tornato a casa per la cena”.
AB: “E poi?”
Stefano: “Volevamo cenare a Bobbio, ma non c’era un ristorante libero e così siamo saliti a Brugnello”.
AB: “Quindi avete chiuso alla grande con la cena a Brugnello?”
Stefano: “Beh, posso dirti che abbiamo scoperto le bellezze di Brugnello, che è un piccolo borgo arroccato su uno sperone di roccia a 464 metri a strapiombo sul Trebbia, proprio dove il fiume fa una curva creando un canyon spettacolare. Per la cena diciamo che ci torneremo e ci riproveremo, perché quella sera era tutto pieno … praticamente un muro di gente”.
Aris Baraviera, Milano, 19 agosto 2020.
Nell’immediato periodo post isolamento al rientro dalle competizioni sono arrivati risultati cronometrici dei nostri velocisti che mai si erano visti. Una casualità oppure l’allenamento nel parco/giardino di casa ha funzionato?
Il n.1 dello sprint italiano Filippo Tortu fa 10’’12 a Savona a Luglio battendo il nostro Marcel Jacobs (10’’14). Flavio Desalu sempre a Savona finisce terzo in 10’29 e il lunghista Filippo Randazzo reduce da un 8.12 metri a Savona subito dopo a Rieti si cimenta sui 100 metri e vince con 10’’32. Per non parlare di Davide Re ;questi i suoi tempi all’esordio: 10’’47 (PB) sui 100 metri, 20’’69(PB) a Rieti sui 200 metri poi sui 400 metri in 45’’31 (suo record italiano nel 2019 in 44’’77 )e a un soffio dal record italiano del compianto Donato Sabia (1:00:08 del 1984) dei 500 metri con un ottimo 1’00’’30 a Rieti a Luglio. Sono prestazioni estemporanee oppure, essendo praticamente degli esordi stagionali, segnano un punto fermo per una grande stagione della velocità italiana? Sicuramente a livello tecnico questi dati fanno riflettere perché avvenuti dopo uno stop o semi stop dovuto al periodo di quarantena. Forse il periodo forzato di assenza dalle prime competizioni ha fatto si che gli atleti nostrani si sono dovuti “arrangiare” con allenamenti “old style” nel cortile o nel vialetto di casa o nel giardino (mini runninginthepark?) (es. Tortu) oppure , immaginiamo, con sedute pure di potenziamento. Un paio di indizi interessant sono prima il caso di Filippo Randazzo; non si è potuto allenare ,sempre immaginiamo, sulla tecnica in quanto non aveva a disposizione il campo di gara e quindi ha focalizzato l’attenzione sulla velocità. Dalle prime evidenze ha clamorosamente beneficiato la prestazione sui 100 metri diventando un outsider di lusso e un ,magari, interessante staffettista per la nazionale italiana e nel frattempo ha saltato benissimo al suo esordio. Secondo esempio: Davide Re allenandosi per la velocità ha scoperto un potenziale altissimo sui 200 metri e ,a tutti gli effetti, ha esordito magnificamente sui 400 metri (il suo è miglior tempo mondiale stagionale). A noi non sembrano casualità, ma inaspettatamente, forse una nuova via nella metodologia del training della velocità!
Corrado Montrasi
Milano, 23/07/2020
Stefano Mossini ci racconta il weekend lungo di Trekking sulle Dolomiti
AB: “Cosa pensavi mentre eri là sulle Dolomiti?”
Stefano: “Ho pensato a tutto quello che mi sono perso in tanti anni, quando ignoravo la bellezza delle montagne…”.
AB: “Perché? Davvero non eri mai stato sulle Dolomiti?”
Stefano: “Diciamo che le frequento da poco, l’anno scorso ci sono andato in inverno, con la neve”.
AB: “C’è una bella differenza tra inverno ed estate in questi posti, sei d’accordo?”
Stefano: “Ecco, ho ammirato la versatilità del posto. Ho rivisto le stesse piste, che si prestavano bene allo Sci di Fondo, adattarsi ora magnificamente alle ruote della mountain bike”.
AB: “Con chi sei andato stavolta?”
Stefano: “Con l’associazione Trekking Taro e Ceno. Tutte le guide del gruppo sono iscritte ad AIGAE, l’Associazione Italiana Guide Ambientali Escursionistiche. Hanno seguito impegnativi corsi della Regione Emilia-Romagna, ottenendo così l’abilitazione a esercitare la professione”.
AB: “Quando siete partiti?”
Stefano: “Siamo partiti venerdì l’altro, il 3 luglio, alle 6 e mezza del mattino, e siamo tornati domenica sera 5 luglio verso le 23.00”.
AB: “Da dove siete partiti?”
Stefano: “Due macchinate sono partite da Parma, una da Piacenza e un’altra da Verona. Eravamo in dieci”.
AB: “E in quali luoghi siete stati di preciso?”
Stefano: “Il primo giorno siamo stati al Lago di Braies, il secondo alle Tre Cime di Lavaredo e il terzo giorno al Picco di Vallandro”.
AB: “Fin dove siete arrivati durante la visita alle Tre Cime di Lavaredo?”
Stefano: “Fin sotto alle Tre Cime, appunto. Solo il muro di roccia verticale ci ha fermato ...”. (Ride)
AB: “Cosa è rimasto del ghiacciaio?”
Stefano: “C’è rimasto qualche fazzoletto di neve e ghiaccio, ma solo delle tracce di quello che era il ghiacciaio di qualche decina di anni fa …”.
AB: “Cosa hai apprezzato particolarmente?”
Stefano: “Il Picco di Vallandro è stupendo! Sei di fronte alle Tre Cime di Lavaredo, e mentre sei là per aria hai praticamente la vista a 360 gradi sul cuore delle Dolomiti. Ti trovi tra la vallata del Lago di Braies e la Vallata delle Tre Cime. Lì ti viene facile dimenticare tutte le miserie terrene, perché percepisci bene di essere vicino al cielo!”.
AB: “Dove avete dormito?”
Stefano: “A Dobbiaco, in albergo, dove abbiamo anche cenato venerdì e sabato. A pranzo invece abbiamo mangiato nei rifugi”.
AB: “Avevate un capo squadra, giusto?”
Stefano: “Certo, la guida Antonio Mortali.E’ un grande esperto in botanica”.
AB: “Dicevi che eravate un gruppo composto da dieci persone, ma di quale fascia di età?”
Stefano: “Beh il più giovane era mio figlio Cristian, che ha appena finito l’esame di maturità. Gli altri erano invece un po’ più maturi, diciamo sui 40 o 50, sicuramente sotto i 60. Il gruppo era composto da 4 uomini e 6 donne”.
AB: “Conoscevi già qualcuno?”
Stefano: “Oltre a mio figlio, ovviamente, conoscevo Floriana, una mia amica di Reggio Emilia”.
AB: “I sentieri erano impegnativi?”
Stefano: “Beh, un po’ sì, ma il gruppo è rimasto sempre unito … ci si aiutava. Come dicevo prima, solo il limite verticale ci ha fermato. Per il resto si è camminato sempre bene”.
AB: “Come è stato il rapporto con i compagni di avventura?”
Stefano: “Direi molto cordiale con tutti. Non si sono formati sotto-gruppetti perché tutti parlavano con tutti, nella massima cordialità e serenità. Purtroppo la sera eravamo troppo cotti per socializzare ancora e dopo un breve giretto in paese (a Dobbiaco) si andava a nanna sfiniti”.
AB: “Il tuo abbigliamento si è rivelato adatto alle condizioni atmosferiche?”
Stefano: “Certo. Avevo magliette termiche, scarpe da Trekking e pantaloncini. Poi nello zaino le cose più pesanti in caso di bisogno”.
AB: “C’è un filo conduttore tra le Dolomiti e le montagne dell’Appennino più vicine a casa tua?”
Stefano: “Non saprei…forse le montagne rispondono all’esigenza di natura incontaminata di cui abbiamo particolare bisogno in questa epoca. Una necessità quindi, non un lusso”.
AB: “Le dolomiti rievocano allo sportivo attento l’eco di una storia di uomini che lassù, sotto diverse bandiere, combatterono gli uni contro gli altri. Ci hai pensato?”
Stefano: “No, sinceramente non mi è venuta in mente la Grande Guerra. Ho pensato alla fatica che facevano gli alpini, ma non quelli di 100 anni fa. Ho pensato a quelli che hanno fatto il militare qui negli anni Sessanta e Settanta, quando la vicinanza alla ex Jugoslavia creava delle tensioni non indifferenti …”.
AB: “Nel 1915 migliaia di uomini italiani ed austriaci si trovarono a combattere a quote così elevate che nessun esercito al mondo aveva mai affrontato prima. Anche sulle Tre Cime di Lavaredo si combatterono diverse battaglie. Più in generale la guerra sulle Dolomiti fu soprattutto di posizione e per questo vennero costruiti cunicoli, camminamenti e fortificazioni nella roccia, così come cunicoli nel ghiaccio. Ancora oggi sono visibili e ben conservati”.
Stefano: “Impressionante che sia veramente potuto succedere tutto ciò. Mi piacerebbe tornare sulle Dolomiti anche per fondermi nei luoghi che sono stati teatro di queste battaglie e magari poter ascoltare le anime degli uomini che non ce l’hanno fatta”.
Aris Baraviera, Milano , 11 luglio 2020.
E’ un martedì pomeriggio di fine giugno, una delle prime giornate calde di questa estate 2020. Stefano Mossini, detto “Il Mos” esce dalla sua casa di Parma per fare jogging con l’intenzione di percorrere il solito giro circolare che lui traccia in senso orario. Vuole smaltire l’acido lattico che ha accumulato nel weekend di trekking trascorso sulle Dolomiti. Ha appena iniziato a correre da Viale Piacenza in direzione di via Buffolara e già sente che i muscoli delle gambe sono duri e tesi come pane avanzato da una settimana. Le camminate in altura sono state piacevoli ma anche piuttosto impegnative. Oltre all’acido lattico, Stefano fa i conti con il movimento della corsa che sembra arrugginito perché è da un po’ che non pratica, visto che negli ultimi tempi si è dedicato perlopiù alla mountain bike. Dopo essere entrato in Strada Baganzola, gira verso est e raggiunge le sponde del torrente della Parma, poi tira dritto verso sud, e in prossimità della Strada delle Fonderie angolo Via dei Farnese, entra nel Parco Ducale.
Il Parco Ducale oggi è un insieme ordinato di giardini e piante che conserva i caratteri formali del giardino settecentesco, con un’atmosfera vagamente romantica che ha un po’ smussato e camuffato le rigide geometrie neoclassiche. Il parco si estende per 208.700 metri quadrati ed è caratterizzato dalla presenza di quasi 1500 piante, molte delle quali hanno circa duecento anni.
Il parco nacque con Ottavio Farnese che fece erigere il Palazzo del Giardino nel 1561 al posto del castello trecentesco della Ghiara, e attorno alla nuova villa creò appunto dei giardini. I Farnese furono una nobile dinastia del Rinascimento Italiano e governarono il Ducato di Parma e Piacenza dal 1545 al 1731. Ottavio, nipote di papa Paolo III, è stato il secondo duca. A fine del XVI secolo i giardini si presentavano ricoperti di boschi d’aranci, querce, pini e platani. Al loro interno vi erano anche delle peschiere con grande quantità di pesce e delle cave in cui venivano tenuti alcuni animali feroci. Il parco cadde in uno stato di declino a metà del Settecento durante la guerra di successione austriaca, quando tutti gli alberi secolari vennero tagliati e bruciati per fini bellici. Con il ducato di Maria Luigia, già moglie di Napoleone, vennero reintrodotte nuove specie arboree tra cui platani che si possono ammirare ancora oggi. Maria Luigia governò dal 1815 al 1847 e fu molto amata perché realizzo diverse opere, tra le quali ricordiamo ad esempio il Teatro Ducale, ma soprattutto perché mantenne in vigore la legislazione napoleonica e anzi, nel 1820, sostituì al Codice Napoleone un codice civile ancora più avanzato.
Come tutti i runner che si allenano al Parco Ducale, anche Stefano predilige le strade perimetrali piuttosto che quelle interne, popolate perlopiù da famiglie che gravitano intorno alla Fontana del Trianon, una bella struttura monumentale dalle forme barocche che i bambini conoscono e amano perché è abitata dai cigni. Nel parco si notano anche parecchie bici, ma è raro vedere i ciclisti che si allenano qui perché a differenza del Parco della Cittadella non c’è un anello asfaltato dove possono scorrazzare veloci e indisturbati.
Stefano ora viaggia tranquillo e le gambe sembrano più sciolte di prima. Il suo cuore pompa bene e lui lo percepisce distintamente. Sa benissimo che un allenamento come quello di oggi aiuta a sviluppare un cuore più forte, soprattutto perché l’attività fisica coincide con i suoi miglioramenti dello stile di vita, come aver smesso di fumare e aver abbandonato una dieta ricca di grassi saturi. La corsa inoltre aiuta a eliminare l’ansia e lo stress post lockdown, favorisce lo sviluppo regolare del sonno e migliora l’umore. Mentre pensa a tutte queste cose, si sente leggero come una piuma e felice di aver intrapreso ormai da qualche anno un percorso salutista che l’ha portato a pesare 82 kg, cioè molti meno rispetto ai 108 che si trascinava precedentemente.
Dopo un certo degrado che ha caratterizzato la struttura del parco negli anni Novanta del secolo scorso, nei primi anni del nuovo secolo il Ducale è stato sottoposto ad un forte restyling nel rispetto delle caratteristiche originarie: oltre al miglioramento dell’illuminazione e l’irrigazione, sono stati installati numerosi cestini e alcune nuove panchine con le doghe lunghe in legno, che hanno affiancato quelle già presenti in marmo bianco. Più in generale il Comune ha cercato di migliorare la fruibilità del parco e la sicurezza delle persone che lo frequentano, anche prevedendo una vigilanza costante. Nonostante questi lodevoli tentativi, il parco non è più frequentato come lo era stato in passato. Stefano ricorda con nostalgia gli anni Ottanta, quando il parco rappresentava un punto fermo per tutti i ragazzi parmigiani. Lo nota bene perché nel parco ci passa tutti i giorni, con sua mamma, con gli amici o con il cane. Ci passa anche perché è vicinissimo alla casa in cui vive. Stefano ne parla spesso con amici e conoscenti, a cui racconta come il parco sia oggi maggiormente apprezzato dai non parmigiani, e in particolare dalle famiglie che sono arrivate a Parma negli ultimi anni dall’Europa centro orientale, dall’Africa occidentale e dall’Asia orientale. Non si capacita di come i parmigiani autoctoni possano essere sempre più attratti dai centri commerciali, dalla liturgia dello shopping e dei fast food, anche se si rende conto di come queste moderne “cattedrali del consumo” siano luoghi costruiti proprio per far perdere la dimensione spazio-tempo ai suoi frequentatori. Non a caso, sa bene, sono luoghi sempre coloratissimi, molto illuminati, senza esposizione di orologi alle pareti, con scaffali e percorsi di camminamento in continuo e costante cambiamento.
Sulla spinta di questa moderna tendenza, che lui voleva comprendere meglio e contrastare, qualche anno fa Stefano si era messo a frequentare gli ambienti delle liste civiche per scoprire se il tema fosse o meno dibattuto nell’ambito cittadino.
In prossimità del Piazzale Santa Croce, cioè vicino all’Ospedale Maggiore di Parma, “il Mos” imbocca l’uscita ovest di via Kennedy, poi prosegue su Viale Gramsci e quando arriva all’incrocio di via Rolando dei Capelluti gira a destra per ritrovarsi poi di nuovo in Viale Piacenza da dove era partito. La sua corsa adesso è fluida e il ritmo è costante come quello di un metronomo. Dopo aver percorso 8 km, Stefano rientra a casa anche se avrebbe voglia di replicare il giro.
Aris Baraviera, Milano, 30 giugno 2020.
Stefano Mossini, purosangue parmigiano, ci descrive il Parco della Cittadella di Parma
AB: “Sei uno sportivo?”
Stefano: “Mi definisco un amante dello sport più che uno sportivo”.
AB: “Quali discipline riesci a praticare?”
Stefano: “Diciamo che trekking e mountain bike li praticavo piuttosto regolarmente prima del lockdown. Mi piace anche fare jogging al parco, ma con la corsa non riesco ad essere altrettanto costante”.
AB: “Dove ti alleni prevalentemente?”
Stefano: “Mi piace molto frequentare il Parco della Cittadella, secondo me adatto sia per l’allenamento con la mountain bike sia per la corsa. E’un parco che attira tantissime persone che vengono qui a praticare svariate attività. Ci sono altri parchi belli a Parma, ma la Cittadella è la casa dello sport, cosa che non vale per gli altri parchi. La vocazione allo sport è come la classe: è innata, se non ce l’hai ...non te la puoi inventare!”.
AB: “Il parco è vicino a dove vivi tu?”
Stefano: “Abbastanza, dista circa 4 km da casa mia. Io abito più vicino all’altro parco famoso di Parma, Il Parco Ducale”.
AB: “Mi descrivi un po’ il Parco della Cittadella?”
Stefano: “La Cittadella ha una forma pentagonale e copre circa 120.000 metri quadrati, è circondata da grosse mura e dotata di bastioni e fossati. Ha una doppia bellezza che è riconducibile sia al verde, inteso come alberi e prati, sia alla ricchezza storico-artistica che caratterizza le costruzioni situate all’interno del perimetro, sia le porte di ingresso e le mura. E’ fatta così perché nasce come fortezza militare verso la fine del Cinquecento per volontà di Alessandro Farnese. Il prato centrale è circondato da grossi platani, mentre ai lati dei vialetti ci sono filari di tigli. La viabilità principale si sviluppa vicino alle mura, dove il viale asfaltato è frequentato da ciclisti, camminatori, runner e pattinatori, e dove a tutte le ore del giorno trovi qualcuno che si allena.
E’un parco molto accogliente perché ci sono bar, tavolini, fontanelle e spogliatoi, e anche per questo è molto frequentato dalle famiglie. Qui si organizzano diversi eventi e manifestazioni. Ultimamente ho visto molte persone che stavano lavorando al computer, anche perché c’è il servizio Wi-Fi gratuito”.
AB: “Quanti accessi ci sono al parco?”
Stefano: “C’è un accesso principale che è quello di Viale Rimembranze, caratterizzato da un elegante ponticello con arcate e il monumento fatto in pietra di Angera. L’ingresso a sud è invece più spartano e si chiama Porta Soccorso, dove ci sono diversi bastioni e hanno sede svariate associazioni. Il tunnel che collega il centro della città al parco credo sia momentaneamente chiuso. E’ comunque un passaggio che solo negli ultimi tempi è stato riscoperto e valorizzato”.
AB: “Cos’altro sai della Cittadella?”
Stefano: “Come ho già detto, so che era nata come fortezza, in scala minore rispetto al prototipo della fortezza di Anversa, da cui hanno preso spunto per costruirla. Via via è diventa prima una caserma, poi una prigione e luogo di esecuzioni capitali. Poi ho letto che ai primi decenni dell’Ottocento, sotto Maria Luisa, è ritornata ad essere una caserma e ha quindi ospitato la fanteria dell’esercito del ducato di Parma Piacenza e Guastalla. Da quando lo conosco io, il parco ha sempre attirato tanta gente. Fino a qualche anno fa all’interno delle mura c’era un ostello molto frequentato dai giovani. La decisone di chiuderlo mi ha molto sorpreso. Ah, dimenticavo di dirti che negli anni Ottanta del secolo scorso nel parco si allenava il famoso Parma calcio di Arrigo Sacchi”.
AB: “A proposito di riqualificazione: le ristrutturazioni sono recenti?”
Stefano: “Il parco ha cambiato volto tra il 2008 e il 2010. Prima si aveva la sensazione che fosse un po’ più trascurato, o per meglio dire meno messo a lucido, patinato. Alcuni lavori li hanno fatti anche di recente, nel 2019 e 2020. Tieni presente che il parco è comunque sempre stato accessibile ai disabili, in quanto non ha mai avuto delle barriere architettoniche. Questo aspetto lo noto poco quando corro, ma quando passeggio col cane – e io lo porto lì ogni sabato mattina -- mi capita di farci caso e di vedere parecchie carrozzine. Credo sia una bellissima cosa”.
AB: “Posso farti qualche domanda un po’ personale?”
Stefano: “Sì certo. Sono qui apposta”. (Ride)
AB: “Lavori in città?”
Stefano: “Lavoro a San Michele Tiorre che è un paesino in collina vicino ai primi rilievi appenninici, sulla riva del torrente Cinghio. Dista 20 km da casa mia. Faccio il magazziniere”.
AB: “Sei sposato?”
Stefano: “Sono separato. Vivo con mia madre che non è completamente autosufficiente. Ho due figli, di 22 e 19 anni (io ne ho quasi 52!) con cui ho un bellissimo rapporto e un simpaticissimo cane meticcio di taglia piccola”. (Sorride e sembra felice)
AB: “Segui qualche dieta alimentare specifica?”
Stefano: “Assolutamente sì. Seguo una famosa dieta che varia a seconda del gruppo sanguigno. Io mangio senza glutine, latticini e carne di maiale”.
AB: “L’ultima tua uscita di trekking?”
Stefano: “Sabato scorso a Borghetto, cioè a Valeggio sul Mincio nel veronese. La settimana prossima sarò sulle Dolomiti”. (Si allontana facendomi ciao ciao con la mano)
Aris Baraviera, Milano, 21 giugno 2020.
Alessandro Ricci (suo lo smog su tela nell'immagine) ci parla della musica che lui suona all’aperto
AB: “Perché suonare all’aperto?”
Alessandro: “E’ bellino suonare all’aperto, l’ho fatto tantissime volte con diverse band nei boschi, nei parchi, lungo le vie della città o sulle colline attorno a Firenze. D’estate c’è l’accompagnamento delle cicale…”
AB: “Ma dove suonate precisamente?”
Alessandro: “Suoniamo spesso in un boschetto vicino a Villa Vrindavana, la villa degli hare krishna, che è dalle parti di San Casciano Val di Pesa, località resa tragicamente celebre a causa del ‘mostro di Firenze’. Altre volte andiamo sulle colline dietro casa mia, altre ancora al Parco delle Cascine. Poi mi garba andare a far musica nei bivacchi… Fino a qualche anno fa suonavo con un amico nei rifugi di Pratomagno, tra la provincia di Arezzo e quella di Firenze. Con un altro amico, detto ‘lo sbirro’ perché lavorava alla Scientifica, avevo fondato il <Duo retrodanza>: lui con la fisarmonica, io col flauto o col violino. Bella esperienza, con lui si fece ballare un po’ di gente nelle campagne attorno a Firenze, forse si trova ancora qualche filmato su YouTube …”
AB: “Vai cercando il silenzio scappando dalla città e quindi dall’inquinamento acustico?”
Alessandro: “Certo, anche quello … ma non solo quello”.
AB: “E’ mai successo che il tempo atmosferico rovinasse l’evento musicale all’aperto?”
Alessandro: “E capitato raramente, anche perché guardiamo attentamente le previsioni del tempo. C’è chi ha degli strumenti musicali delicati che non possono prendere la pioggia, come chitarre e sitar, per cui siamo obbligati a scegliere le giornate di alta pressione. Il sitar è uno strumento a corde originario dell’India settentrionale. Ha un suono tutto particolare ed è fatto anche con parti di zucca essicata … quindi è delicatissimo!
Se si improvvisa io tendo sempre a portare il flauto, ma non quello piccino che si impara a conoscere a scuola, quello un po’ più grosso che ha il suono più melodico. Ovviamente ci sono anche gli eventi in cui devo per forza usare il violino e lì devo stare attento a non beccare acqua”.
AB: “Se ho capito bene, il flauto si presta meglio del violino all’improvvisazione?”
Alessandro: “No, non vale per tutti questa cosa, vale per me perché sono più bravo con il flauto che con il violino …”
AB: “Quando suonate all’aperto, specie in collina, il vento non disturba l’acustica?”
Alessandro: “No non direi, prendiamo quello che viene. Se hai lo spartito logicamente devi fissarlo con le mollette perché altrimenti le pagine te le gira il vento …”
AB: “Ma come si comportano gli animali del bosco quando voi suonate?”
Alessandro: “Loro fanno il loro, noi non li disturbiamo perché non usiamo amplificatori o batterie. Il nostro suono è abbastanza dolce”.
AB: “Suoni stabilmente con qualche band?”
Alessandro: “Non stabilmente, mi chiamano spesso per eventi con il flauto, ma anche con il violino mi capita di suonare in gruppo”.
AB: “Fate spettacoli aperti al pubblico?”
Alessandro: “Sì capita, ma di solito suoniamo per divertirci e stare in mezzo alla natura. Ci diamo appuntamento e ci troviamo direttamente sul posto. D’inverno logicamente è molto difficile e allora ognuno suona per conto proprio oppure ci troviamo a casa di uno che abita in campagna. Da me mai perché abito in appartamento, a Stazzema”.
AB: “Ti capita di suonare anche da solo all’aria aperta?”
Alessandro: “Sì certo, ma di solito vado a provare dei pezzi in posti sperduti”.
AB: “Posso chiederti qual è il primo strumento che hai suonato nella tua vita?”
Alessandro: “Il flauto dolce”.
AB: “Avevi preso delle lezioni private?”
Alessandro: “No, credo che sia corretto definirle <lezioni ombra>”. (Ride)
AB: “In che senso?”
Alessandro: “Nel senso che un mio amico prendeva lezioni a pagamento da un maestro di musica antica e io imparavo da lui, diciamo a scrocco, perché ad ogni lezione che lui faceva si esercitava con me e mi spiegava quello che aveva imparato con il maestro. Assieme si andava sulle colline dietro a Scandicci e lì si passavano delle ore a fare solfeggi. Dopo aver suonato con lui per tanti anni, specialmente duetti di flauto dolce su musica del Cinquecento, in particolare del compositore Grammazio Metallo, ho continuato da me cercando di affinare le tecniche che avevo imparato con lui …
Oh, per le lezioni di flauto io non ho mai pagato un centesimo!” (Ridacchia)
AB: “Altri strumenti che hai suonato?”
Alessandro: “Sempre da ragazzino avevo preso lezioni di organo a canne. Poi al conservatorio ho studiato violino e pianoforte”.
AB: “Che musica suoni adesso con il flauto?”
Alessandro: “Prevalentemente musica barocca, ma non disdegno anche quella popolare. D’altronde il flauto si presta poco alla musica rock. Alcuni amici mi hanno insegnato anche qualcosa di musica classica indiana, il Raga”.
AB: “E con il violino che musica prediligi suonare?”
Alessandro: “Beh, prevalentemente musica popolare, però per conto mio anche robetta barocca, giusto per migliorare la tecnica …”
AB: “Quante ore ti alleni a settimana?”
Alessandro: “Suono tutti i giorni, in genere circa quaranta minuti. Negli ultimi tempi mi sto esercitando solo con il violino. Non pensare però che io stia trascurando l'attività fisica al parco...quello mai!"
AB: “Tornando alla tua scelta di suonare all’aperto, spesso e volentieri in mezzo al verde, tu credi che alla base di questo ci sia un tuo continuo e costante bisogno di stare in armonia con la natura?”
Alessandro: “Non lo so, se ci vuoi ragionare tu … io non saprei proprio. Posso dirti che a me piace, ma non riesco a fare troppi pensieri attorno a ‘sta cosa”.
AB: “Per chiudere, ti viene in mente una citazione famosa che rispecchia il tuo modo di vivere?"
Alessandro: “Boh, su due piedi non saprei … o forse ‘Tutto è impermanente’ come dicono gli indiani, che sembra un po’ richiamare il ‘Panta rhei’ (‘Tutto scorre’) dei presocratici.
Ecco…però forse la frase che più sento vicina al mio modo di intendere le cose è quella che avevo letto per caso in un bar di Linosa: <Vivi e futtitinni>”.
Aris Baraviera, Milano, 16 giugno 2020.
L’intervista ad Alessandro Ricci nella Giornata mondiale dell’ambiente
AB: “Quest’anno la giornata del cinque giugno è dedicata alle biodiversità, cosa ci dici in proposito?”
Alessandro: “Quest’anno è un po’ sottotono a causa dell’emergenza Covid, non ci sono stati ritrovi in piazza. L’ultima uscita a cui ho partecipato è stata a settembre per il Fridays For Future. Comunque, va bene così, avremo modo di rifarci.
Purtroppo le biodiversità sono minacciate dalle deforestazioni e dalla distruzione degli ecosistemi. Per esempio, dalle mie parti c’è la Piana di Firenze, dove grazie ad aree protette e alla permanenza di piccole zone umide residuali, scampate alle bonifiche, si è creata una varietà di uccelli eccezionale. Proprio lì è prevista la realizzazione di quel mega aeroporto di cui vi parlavo nelle precedenti interviste. In generale, comunque, le biodiversità sono messe in pericolo anche dalle importazioni di specie aliene, che vanno in contrasto con quelle autoctone, come ad esempio lo scoiattolo grigio nordamericano, che nella nostra penisola sta emarginando sempre più lo scoiattolo rosso europeo…”
AB: “A quali associazioni ambientaliste sei iscritto?”
Alessandro: “Solo al WWF. Ho aderito a molte iniziative di Lega Ambiente, ma non sono tesserato”.
AB: “Qualche settimana fa, avevamo scritto che la tua vena ambientalista è nata sulle Alpi Apuane, è corretto?”
Alessandro: “Ho sempre avuto una spiccata sensibilità ambientalista. In realtà non so dirti dove sia nata di preciso. E’ comunque vero che le mie prime escursioni le ho fatte lì, a Stazzema, dove avevano casa i miei nonni e dove praticamente trascorrevo tutte le mie estati, da bambino e ragazzo”.
AB: “Che tipo di zona è?”
Alessandro: “Parliamo di Alta Versilia, di Alpi Apuane le cui cime sfiorano i duemila metri. Sono zone molto belle e panoramiche, ma qui la natura è ferita perché si estrae il marmo e le montagne scompaiono…”
AB: “Ci fai il nome di un posto conosciuto? E anche di quello che tu preferisci?”
Alessandro: “Beh, le escursioni le facevo spesso verso il Rifugio Forte dei Marmi, che è molto conosciuto. Poi c’è il Monte Forato che è quella cima bucata, piuttosto suggestiva che viene fotografata spessissimo. Io preferivo il Colle Cresta, che è una cima a picco su Pontestazzemese. Per raggiungerla bisogna percorrere un sentiero ripido e stretto, pieno di rovi e ragnatele, dato che è poco battuto. E’ uno dei miei luoghi del cuore. Dalla cima scorgi il mare, le montagne e sotto, a picco, il fiume e il paese. Da lassù vedi passare le macchine sotto di te e le vedi piccine piccine. Sulla cima si sta comodi perché è piuttosto larga, se hai le vertigini però devi evitare di stare sul bordo. Quando sei in cima vedi tantissimi rapaci che ti volano sopra la testa, credo siano falchi”.
AB: “E’ corretto sostenere che il tuo attivismo ecologista sia arrivato poi ad una vera maturazione a Linosa?”
Alessandro: “Non lo so e non credo sia importante scoprirlo. A Linosa sono stato per nove estati. Purtroppo l’associazione Hydrosphera in questo momento non esiste più e non so bene che tipo di problemi ci siano stati. Sta di fatto che non ci hanno più permesso di operare e non so se potremo mai rifarlo”.
AB: “Di che cosa si occupava Hydrosphera?”
Alessandro: “L’associazione composta da biologi e veterinari monitorava i nidi delle tartarughe. In ogni nido ci sono 50/70 uova e la mortalità dei piccoli è elevatissima. Ci occupavamo anche delle tartarughe adulte ferite dall’amo dei pescatori. Erano gli stessi pescatori, sensibilizzati dall’associazione, a portare le tartarughe bisognose di cure al nostro centro. Qui venivano trattate prima chirurgicamente e poi con terapia antibiotica. Nostro compito era anche recuperare le tartarughe che avevano ingoiato la plastica: queste venivano individuate in mare aperto, poi messe nelle vasche del nostro centro per farle spurgare. Le tartarughe che hanno la plastica in pancia non riescono più ad immergersi. Nelle vasche venivano nutrite con pesci e quando espellevano la plastica poi via via ricominciavano ad immergersi nell’acqua. Questo era il segnale che potevano tornare libere in mare aperto”.
AB: “Tu che compiti avevi a Linosa?”
Alessandro: “Dipende dalle necessità, facevo tante cose come ad esempio i turni per monitorare i nidi. Stavo lì di notte sulla spiaggia e quando vedevo che la sabbia iniziava a muoversi, avvisavo gli altri. Sono processi lentissimi. Io avevo in dotazione una pila a luce rossa a bassa intensità; la luce normale può confondere le tartarughine che devono sapersi orientare per potersi dirigere verso l’acqua, cioè verso il mare”.
AB: “Tornando al tema del giorno, vorremmo un tuo commento sulle dichiarazioni di Luca Mercalli: il noto divulgatore scientifico ha affermato che il problema del Covid è momentaneo, mentre i problemi ambientali stanno ormai per diventare irrisolvibili per l’umanità. Lo scorso maggio infatti si è toccato il record di concentrazioni di anidride carbonica nell'atmosfera, e le temperature registrate sono state le più alte di sempre”.
Alessandro: “Credo che l’umanità si stia tagliando le palle da sola, scusa ma non mi viene altro da dire”.
AB: “Però c’è chi sostiene che il surriscaldamento del pianeta sia ciclico e che sia solo marginalmente correlabile alle emissioni di anidride carbonica per la combustione dei fossili come carbone, gas e petrolio. Come a dire che l’attività umana c’entra poco o nulla”.
Alessandro: “No, no, è oggettivo che le emissioni legate alle attività umane siano responsabili dell’innalzamento delle temperature. Anche l’acqua degli oceani sta diventando più acida per l’aumento dell’anidride carbonica ...”
AB: “Il famoso filosofo linguista Chomsky sostiene che il Covid non è nulla in confronto alla minaccia ambientale e nucleare che incombe sul pianeta”.
Alessandro: “Capisco bene l’incombenza della minaccia ambientale, non credo però che l’umanità possa essere così autolesionista da provocare una guerra nucleare … ma… oddio, non c’è limite alla pazzia!”
Aris Baraviera, Milano, 5 giugno 2020.
Alessandro Ricci ci descrive il Parco Nazionale Foreste Casentinesi situato sull’Appennino Tosco-Emiliano
AB: “Vai spesso alle Foreste Casentinesi?”
Alessandro: “Non spessissimo perché non è vicino a Firenze e quindi mi tocca usare la macchina, che io non amo perché inquina”.
AB: “Dove si trova precisamente il Parco?”
Alessandro: “Si trova sull’Appennino Tosco-Emiliano, tra le province di Firenze, Arezzo, Cesena e Forlì. Ci sono circa settanta km da casa mia e ci si impiega circa 1 ora e 1/2. Sono tutte curve da qua a là”.
AB: “Lì fai Trekking o Hiking?”
Alessandro: “Beh, dipende. L’ultima volta sono stato lì per un altro motivo, per un censimento di animali. Eravamo in un centinaio di volontari muniti di campanelli e dovevamo indirizzare i mammiferi verso un punto in cui erano situati dei rilevatori e dove c’erano persone che monitoravano il passaggio della fauna”.
AB: “Che tipo di parco è? Ci racconti qualcosa?”
Alessandro: “Beh dal punto di vista storico non ti so dire molto: so che qui gli Etruschi adoravano i loro Dei presso il Lago degli Idoli. Con la legna che arriva da questo parco il Brunelleschi ci ha fatto la sua Cupola, mentre il Granducato di Toscana utilizzando gli abeti presi da qui ha costruito la flotta marittima di Pisa e Livorno. In questa zona l’antropizzazione è sempre stata piuttosto modesta se si esclude l’Ottocento. Oggi, tolti quelli che lavorano nei rifugi, credo che non ci abiti stabilmente nessuno”.
AB: “Come si presenta il posto dal punto di vista fisico?”
Alessandro: “Allora, posso dirti che l’80% del parco è boschivo, qui c’è una biodiversità altissima specialmente all’interno della Riserva del Sasso Fratino. Io vado spesso a Poggio Scali, una bella cima dalla quale nelle giornate particolarmente limpide si può vedere l’Adriatico e il Tirreno. Le cime non sono alte come le Alpi, le maggiori credo siano arrivino a 1500 metri sul livello del mare. Ci sono circa 1300 specie di flora, 44 tipi di orchidee. Gli alberi prevalenti sono faggi, abeti, castagni, querce e aceri. Soprattutto faggi direi”.
AB: “E cosa ci dici degli animali che ci vivono?”
Alessandro: “Beh, non è che si facciano vedere tantissimo gli animali. Io ho avuto l’onore di incontrare qualche daino, ma ci sono anche cervi, cinghiali, caprioli e mufloni. Poi ci sono lupi, gatti selvatici, istrici, ricci, lepri, scoiattoli rossi, puzzole, donnole e faine”.
AB: “E degli uccelli?”
Alessandro: “Ci sono più di cento specie di uccelli tra cui il picchio rosso, il picchio verde e il picchio nero. Poi tantissimi rapaci, tra cui l’aquila reale".
AB: “C’è altro di interessante?”
Alessandro: “Beh… 23 specie di anfibi e rettili e poi alcuni invertebrati tra cui il gambero di fiume e il granchio di fiume. In particolare posso dirti che il gambero nostrano è solo qui, perché nel resto dei corsi d’acqua italiani ormai vive solo il gambero rosso della Lousiana che negli anni ha spazzato via il gambero autoctono: lo Austropotamobius pallipes”.
AB: “Quali le zone più interessanti del parco?”
Alessandro: “Dipende molto da quello che uno cerca. Dal punto di vista biologico è interessantissima la Riserva del Sasso Fratino. Io ci sono entrato con una guardia forestale perché il perimetro non è liberamente accessibile. Dal punto di vista storico c’è il sito del Lago degli Idoli. Per la gita delle famiglie consiglio la Cascata dell’Acquacheta, vicino a san Benedetto in Alpe, o i vari monasteri situati dentro il parco”.
AB: “La visita alla Riserva del Sasso Fratino è una bella esperienza?”
Alessandro: “Sì certamente, un’esperienza da ricordare, non solo per le cose belle che ho visto … ma anche perché mi sono ritrovato una zecca sulla pancia”. (Ride)
AB: “Fai anche delle escursioni di Hiking in solitaria alle Foreste Casentinesi?”
Alessandro: “No, quasi mai. Vado con amici, soprattutto con amiche… ma ci andavo anche con i miei genitori fino a qualche anno fa … Il posto è talmente bello che mi viene spontaneo portarci le persone più care che ho”.
AB: “Di solito ci vai ben equipaggiato?”
Alessandro: “Vado con scarpe comode, sportive. Quando è umido ci vogliono per forza quelle da trekking. In genere porto lo zaino in spalla e il cibo al sacco. C’è qualche rifugio; volendo si può anche decidere di mangiare in vetta”.
AB: “Come sono i sentieri? E’ agevole camminare nella boscaglia?”
Alessandro: “C’è anche qualche strada asfaltata che porta ai monasteri. Il più importante è l’eremo della Verna, dove è stato anche San Francesco. Poi sentieri di tutti i tipi: sterrati, sassosi e in erba. Puoi camminare bene anche nel bosco perché le piante di faggio non hanno molto sottobosco, per cui si marcia bene anche sotto gli alberi”.
AB: “Perché San Francesco si è fermato alla Verna?”
Alessandro: “Nonostante il Parco delle Foreste Casentinesi sia il mio angolo di paradiso, a questa domanda non so rispondere. Io all’epoca non ero ancora nato …” (Sorride e mi saluta)
Aris Baraviera, Milano, 31 maggio 2020.
Alessandro Ricci ci parla di uno storico polmone verde dell’area urbana di Firenze: il Parco delle Cascine
AB: “Come ci arrivi alle Cascine da casa tua?”
Alessandro: “Sono circa quaranta minuti a piedi, penso siano 3 o 4 chilometri. Di solito vado in bici, poi a volte il mezzo lo uso anche dentro al parco, altre volte no. Anche quando devo andare in centro a Firenze passo comunque sempre dalle Cascine, sia che io vada con la tranvia che con la bici, perché non faccio mai le strade normali. Percorro due o tre stradette dell’isolotto e poi mi infilo nel Parco ... mi garba così!”
AB: “Che tipo di parco è?”
Alessandro: “Beh, è un parco a misura di tutti: ci sono i pigri che fanno due passi e poi si siedono a leggere o ad ascoltare musica; quelli che si allenano per le gare, quelli che vanno con i pattini, quelli che fanno jogging, quelli che vanno in bici e naturalmente anche quelli che fanno solo delle passeggiate contemplative”.
AB: “Sapresti dirci che piante ci sono al suo interno?”
Alessandro: “Mah, sai, il parco è quasi interamente all’ombra se escludi la parte in riva all’Arno.
Ci sono altissimi pini e platani, poi molti lecci e parecchie Ginkgo biloba, pianta di origine cinese, ma evidentemente già qui da centinaia di anni, poi tante altre ancora…”
AB: “Che differenza c’è tra le Cascine e gli altri parchi?”
Alessandro: “Beh, la caratteristica che lo rende particolare è che si estende lungo le rive dell’Arno. Misura credo 3,5 Km in lunghezza ed è largo 650 metri circa. Ha una sua storia e non è un parco nato recentemente, quindi c’è un po’ di tutto dentro”.
AB: “Che cosa sai tu della storia di questo parco?”
Alessandro: “Beh, più che averlo studiato … io lo frequento. (Sorride)
Nasce come tenuta di caccia dei Medici nel Cinquecento, poi a fine del Settecento cambia forma e diventa un parco. Nel 1791 qui viene organizzata la cerimonia di insediamento di Ferdinando III D’Asburgo, Granduca di Toscana. Poco prima venne fatta costruire, da Pietro Leopoldo di Lorena, la bellissima Palazzina Reale, ora sede della facoltà di Agraria dell’Università di Firenze. Il parco venne poi rilevato dal Comune di Firenze nella seconda metà dell’Ottocento. Dentro al parco c’è anche il monumento a Vittorio Emanuele II, la Piramide delle Cascine e altre cose ancora, come una fontana con tanto di paperelle e cigni. Verso la fine del parco, in direzione Pisa, c’è poi un ponte d’acciaio di colore rosso, si chiama Ponte all’Indiano, che è un mostro degli anni Settanta.
In epoca recente, credo dal 2010, dentro al parco ci passa la tranvia che collega Scandicci a Firenze. Prima che ci facessero la tranvia, che in pratica ha chiuso il vialone principale, di notte il parco era praticamente un postribolo. Dal 2010 questa fama è andata via via spegnendosi proprio perché i binari hanno chiuso l’accesso a quel vialone …” (Ride)
AB: “Il parco è accessibile completamente anche in bici? O ci sono zone dove puoi andare solo a piedi?”
Alessandro: “Guarda, in bici giri bene: il perimetro, le viette interne, le strade attorno all’anfiteatro, le strade asfaltate, quelle sterrate o in erba, insomma ce n’è per tutti i gusti!”
AB: “Quanto spesso frequenti il parco? E quando vai quanto ci rimani?”
Alessandro: “Vado quando ne ho voglia, in genere nel tardo pomeriggio, ma non ti so dire giorni precisi, medie o altro. Ci sto almeno due ore, altrimenti che ci vò a fare?”.
AB: “Quando sei al parco sei sempre in movimento o fai anche delle pause?”
Alessandro: “Qualche volta mi fermo alla pescaia dell’Arno a vedere scorrere l’acqua, oppure a guardare qualche bella ragazza che passa di lì. Anzi, direi più le ragazze che l’Arno.
Mi fermo anche all’Indianino, dove c’è una fontana da cui si può bere. Si chiama Indianino perché lì, dove confluiscono il Mugnone e l’Arno, gettarono le ceneri di un nobile indiano che morì a Firenze, da qui anche il nome del ponte (Ponte all’Indiano) che c’è subito dopo”.
AB: “Ti capita di allenarti per qualche competizione agonistica?”
Alessandro: “No, mi sta troppa fatica … della competizione non me ne frega nulla. Se uno arriva prima di me …a me va benissimo!”
AB: “Quali altri parchi frequenti oltre alle Cascine?”
Alessandro: “Capita di frequentare anche altri parchi, ma in genere l’alternativa è la collina, anzi tutte le colline della zona".
AB: “Posso chiederti che battaglie state facendo voi ecologisti fiorentini?”
Alessandro: “Guarda io la politica non la seguo, non sono sintonizzato sulle ragioni dell’uno o dell’altro schieramento, a me interessa l’ambiente e la nostra salute. Posso dirti comunque che da diversi anni a Firenze stanno tentando di realizzare un nuovo mega aeroporto: c’era stato un primo via libera, poi è intervenuto il Tar che ha bloccato tutto, in seguito ci sono stati i ricorsi contro la decisione del Tar e ultimamente si è pronunciato anche il Consiglio di Stato che ha respinto i ricorsi. Boh, io dico solo che l’inquinamento provocato dagli aerei è davvero micidiale. Non ci si rende nemmeno conto di quello che scaricano nell’aria questi giganti!”.
AB: “A quando risalgono le tue prime battaglie ecologiste?”
Alessandro:” Beh, sicuramente le prime battaglie che ricordo sono quelle degli anni Ottanta, contro la caccia. Poi ricordo di essere stato molto coinvolto emotivamente dal tema dello sterminio degli animali da pelliccia. E mi sembra ieri che giravo con la foto di quella donna nuda nel portafoglio, su cui c’era scritto ‘L’unica pelliccia che non mi vergogno di indossare’. Nel 1995 invece scesi in piazza con un grosso mestolo e una padella da frittura per manifestare contro gli esperimenti nucleari che i francesi stavano praticando a Mururoa”. (Con l’indice si punta la tempia come a sottolineare certa follia)
AB: “Ultima domanda: si dice che i parchi abbiano un notevole valore terapeutico e che dovremmo frequentarli più spesso per non dover ricorrere poi alle cure dello psicologo. Tu che ne pensi? Che influsso benefico ha su di te il parco delle Cascine?”
Alessandro: “Suvvia, meglio donare l’anima ai parchi che perdere la testa dallo psicologo. Via, dai, la prossima volta che torni a Firenze ti ci porto io a giro per le Cascine”.
Aris Baraviera, Milano, 23 maggio 2020.
Alessandro Ricci ci racconta come è nata l'idea dello smog su tela e le sue evoluzioni
AB: “Come e quando ti è venuto in mente di disegnare utilizzando lo smog come colore?”
Alessandro: “Più o meno vent’anni fa, credo fosse il duemila. Ero dalle parti di Ponte alla Vittoria, appena fuori dal centro storico di Firenze, in prossimità dell’ingresso al Parco delle Cascine. Lì, in una via dove c’è sempre il caos, notai delle persiane verdi completamente ricoperte di nero. Ci passai il dito, ricordo, per curiosità, ed esclamai spontaneamente <Porca miseria, ci si potrebbe fare un quadro dallo schifo che c’è!>”.
AB: “Quando l’hai fatto l’ultimo quadro?”
Alessandro: “L’estate scorsa ne ho fatto qualcuno. L’ultimo è quello che ho disegnato per una mia amica, che mi aveva espressamente chiesto un Ponte Vecchio. Gliene ho fatto uno piccolo e scuro, con lo smog raccolto da via della Scala, che dal punto di vista dell’intensità del colore è sempre una garanzia”. (Sorride)
AB: “Quindi lo smog non lo raccogli sempre vicino al Ponte della Vittoria?”
Alessandro: “No, nel 2007, credo, iniziai a raccoglierlo anche dai monumenti del centro di Firenze. Gli ‘Amici delle Mostre’ alle quali ho esposto i miei quadri, mi chiesero espressamente di raccoglierlo dal Duomo per far vedere il degrado della città e dei suoi monumenti. Tieni presente che lo smog annerisce tantissimo e toglie la bellezza alle opere, le corrode. Ora c’è la statua del Biancone in piazza della Signoria che è perfetta; il Battistero se lo vedi è stupendo e luccicante, ma solo perché hanno finito il restauro … non so come saranno tra dieci anni. Per fortuna, seppur tardivamente, la piazza del Duomo è stata chiusa al traffico nel 2009. Per l’occasione feci un quadretto che intitolai ‘Finalmente pedonale’ per festeggiare l’evento”.
AB: “Che tipo di pittore sei?”
Alessandro: “No, ma io non mi considero un pittore: faccio schizzi e mi arrangio come posso, alla buona. Disegno solo per mostrare che c’è talmente tanto smog che ci si possono fare anche quadri. La mia pittura dimostra solo la densità dell’inquinamento in cui viviamo, senza quasi rendercene conto!” (Scuote la testa in segno di disappunto)
AB: “Ci spieghi come realizzi i quadri con lo smog?”
Alessandro: “Raccolgo lo smog, ad esempio dalle persiane o da un monumento, con un batuffolo di cotone che bagno prima nell’acqua e poi strizzo bene, in modo tale che rimanga solo umido. Una volta ottenuto l’annerimento del cotone con le polveri di smog, prendo degli stuzzicadenti su cui lo arrotolo e quindi inizio a fare il disegnino su tela bianca. Poi, con dei pezzi di cotone più grosso, che tengo fra le dita, faccio le sfumature o quello che rimane da fare. La mia tecnica non prevede l’uso del pennello”.
AB: “E per il fissaggio che tecnica usi?”
Alessandro: “In passato, per fissarlo ho usato un po’ il Damar con il pennello, poi però ho voluto cercare delle resine naturali e alla fine ho sperimentato anche il ferro da stiro bollente”.
AB: “Posso chiederti in che modo usi il ferro da stiro e perché non usi lo spray?”
Alessandro: “Finito il disegno, metto un foglio di carta sopra il quadro, poi lo giro e passo il ferro da stiro bollente sul retro del dipinto; questo favorisce la penetrazione degli idrocarburi tra le maglie della tela. Non uso il Damar spray perché fa male alla salute, è chimico, non è un prodotto naturale”.
AB: “C’è un sito che possiamo consultare per vedere i tuoi quadri?”
Alessandro: “Io non ho un sito. Trovate qualcosa in internet digitando ‘Smog su tela, Ricci’. Oppure se andate su FLICKR e cercate ‘Smog su tela’, vedete quelli che hanno caricato lì per le mostre”.
AB: “Mi sembra di aver capito che disegni scorci e panorami di Firenze, è davvero così?”
Alessandro: “Sì più o meno è così, ci sono parecchi vicoli di Firenze, ma ho fatto anche qualcosa su Pisa. Questo perché diversi anni fa il direttore dell’associazione 'Amici dei Musei', Mauro Del Corso, mi fece fare una mostra a Pisa per denunciare il passaggio delle tantissime macchine sotto Santa Maria della Spina, che è un piccolo gioiello del gotico che si trova sul lungarno pisano. Anche quel colore era smog, per l’occasione raccolto a Pisa e la sfumatura era un po’ più chiara. Quindi per essere preciso parlerei di nero di Firenze e di grigio di Pisa. Il nero più intenso di tutti lo raccolsi nel 2008 a Bologna, in via Amendola. Fantastico, si fa per dire”. (Sorride)
AB: “Tutti i tuoi quadri hanno un nome, cioè un titolo?”
Alessandro: “Beh, più o meno, ma la cosa più importante è che si sappia che sono fatti con lo smog. A me interessa far vedere lo schifo che si respira, il nero che si deposita sulle persiane o sui monumenti, così come nei nostri polmoni".
AB: “Nel 2017 sei stato invitato in un rinomato programma TV per parlare dei tuo quadri, è cambiato qualcosa per te da allora?”
Alessandro: “No, non è cambiato nulla. Ricordo che ci andai per fare un bel giretto a Roma. Faccio notare che ci andai in treno e che non volli prendere il taxi che mi avevano prenotato. Scelsi di fare la strada a piedi dalla stazione fino agli studi televisivi per non inquinare. E alla fine mi feci davvero un bellissimo giro per la città!”
AB: “Posso chiederti se c’è un pittore famoso nella storia dell’arte che ti ha particolarmente affascinato?”
Alessandro: “Difficile darti un nome, la storia della pittura è tutta bella! E anche quella dell’arte contemporanea è sicuramente molto interessante. Così su due piedi mi viene in mente Jean Dubuffet e la sua ‘Art Brut’. Dubuffet era quel tizio che, nel secondo dopoguerra, andava a giro per i manicomi a guardare i disegni dei malati di mente. Lui intendeva definire un’arte spontanea senza pretese culturali, al di fuori dalle norme estetiche e convenzionali”.
AB: “Nei dipinti quali soggetti preferisci?”
Alessandro: “Mi piace tantissimo guardare gli strumenti musicali nei quadri del Quattrocento e del Cinquecento”.
AB: “Qual è invece il tuo quadro preferito in assoluto?”
Alessandro: “Boh, mi viene in mente ‘Impressione, levar del sole’, di Monet. Quello è un quadro bello davvero!”
AB: “Cosa ne dici, per la prossima volta, di disegnare Santa Maria Novella piena di persone con le mascherine?”
Alessandro: “No dai, è già triste farla con lo smog, se poi ci mettiamo le mascherine è ancor più triste!".
Aris Baraviera, Milano, 17 maggio 2020.
Alessandro Ricci, ecologista, artista e sportivo, ci racconta come ha trascorso il suo lockdown in quel di Firenze e del suo immediato periodo post (dal 4 maggio in poi) con i suoi itinerari in bici...
AB: “Come hai trascorso il lockdown?”
Alessandro: “Di questo lockdown io ho apprezzato l’aria buona, l’assenza di inquinamento. Ti posso dire che andare a giro adesso in bici è fantastico. Credevo di essere allergico ai pollini, ma non lo sono: è evidente e chiaro che sono invece allergico al mix smog-pollini, e ne ho avuto la dimostrazione, direi scientifica, perché sono stato benissimo quest’anno che l’aria è pura e priva di inquinamento”.
AB: “Quindi dal 4 maggio hai ripreso ad andare in bici?”
Alessandro: “Sì, tutti i giorni mi arrampico su per la ripida collina di Marignolle con la bici, poi scendo e vado dove voglio, anche verso la città, apprezzando quest’aria che fino ad oggi è stata davvero ottima”.
AB: “Durante la fase 1 hai fatto esercizio fisico a casa?”
Alessandro: “No, nulla. Adesso che posso uscire ho ripreso a fare un po’ di stretching”.
AB: “Stai lavorando da casa?”
Alessandro: “No, perché l’ultima supplenza l’ho avuta nei mesi finali del 2019, per cui il lavoro l’avevo terminato con l’arrivo delle vacanze di Natale, quindi ero in attesa di un nuovo incarico”.
AB: “Quindi come trascorrevi le giornate?”
Alessandro: “Ho studiato per il concorso all’abilitazione dell’insegnamento delle Scienze, senza affanni e senza stress, e ho studiato abbastanza bene. Visto il periodo, ho approfondito l’argomento virus perché mi aspetto qualche domanda sul tema. L’iscrizione al concorso andrà perfezionata tra giugno e luglio, il concorso vero e proprio credo ci sarà a ottobre. Se poi è vero quello che ho sentito in TV, cioè che dimezzeranno il numero di studenti per classe, allora credo che dovranno assumere tanti docenti e ci saranno buone possibilità … o almeno spero”.
AB: “Hai avuto ansia, depressione o insonnia?”
Alessandro: “Per fortuna non ho avuto particolari problemi durante il lockdown. Mi è spiaciuto molto per le persone che hanno contratto il virus e che sono state male o che non ce l’hanno fatta”.
AB: “Cosa ti è mancato di più?”
Alessandro: “Ho sofferto tantissimo il divieto di accesso ai parchi. Per un ecologista come me, con l’aria pura che abbiamo avuto, lo stare in casa forzatamente mi è sembrato una pena del contrappasso …”
AB: “Sappiamo che sei uno spirito anarchico e proprio per questo vogliamo sapere se hai rispettato i divieti che la situazione imponeva”.
Alessandro: “Certo, avere uno spirito anarchico non significa essere irresponsabili. Ho evitato gli assembramenti e mi sono limitato a spostamenti di necessità. Forse ho sconfinato di qualche metro il limite prefissato dei 250 durante le passeggiate intorno a casa, ma non ho visto nessuno che girava con il metro …” (Sorride)
AB: “Cosa è cambiato per te con la fase 2?”
Alessandro: “E’ cambiato poco, anche se ho potuto incontrare una cara amica. Ora però non chiedetemi se ci sono gli estremi per poterla considerare a tutti gli effetti un congiunto”. (Ride)
AB: “Hai potuto dedicare tempo ai tuoi strumenti musicali?”
Alessandro: “Sì almeno un’ora e mezza al giorno l’ho dedicata alla musica. Ultimamente suono più il violino che il flauto”.
AB: “Come professore di Scienze Naturali, hai la sensazione che si sia incrinato l’ecosistema e che ciò possa favorire il diffondersi in futuro di nuovi virus?”
Alessandro: “Certo, lo spillover, il salto di specie avviene proprio con la violazione di alcuni ecosistemi. Pensa che la rivista ‘Le Scienze’ dice che ci sono circa 1, 6 milioni di virus sconosciuti in mammiferi e uccelli, e stima che 700.000 hanno il potenziale di innescare una zoonosi, cioè una pandemia”.
AB: “Ma che cosa c’entra l’uomo nella violazione degli ecosistemi?”
Alessandro: “Beh, l’uomo per definizione è la devastazione degli ecosistemi. L’origine del virus non è chiara, ma la maggior parte degli studiosi ritiene che sia naturale, zoonotica, ovvero dovuta a una trasmissione dagli animali all’uomo, così come è accaduto anche per la Sars e per la Mers. A oggi non è ancora stato possibile identificare con certezza il serbatoio animale del virus, né l’ospite intermedio che ha permesso all’agente infettivo di passare dal suo ospite naturale all’uomo. Finora sono stati ipotizzati, tra i diversi animali, il pipistrello come serbatoio naturale e un particolare tipo di serpente, venduto nei mercati alimentari cinesi, come vettore. Le ipotesi più accreditate partono proprio dalle similitudini tra le sequenze delle basi dell’RNA, cioè del codice genetico del Covid 19, con quella dei coronavirus animali, in particolare, appunto, quello dei pipistrelli”.
AB: “Pensi che usciremo presto dalla situazione in cui ci troviamo?”
Alessandro: “Boh, come si fa a fare delle previsioni sulle tempistiche? Io ho la sensazione che ne avremo per un po’e non mi stupirei se tra un anno saremo ancora qui con le mascherine …Spero che presto possa esserci un vaccino e che questo possa garantire l’immunità di lungo periodo. La situazione attuale è tutt’altro che chiara”.
AB: “Ultima domanda: ti stai ritagliato un po’ di tempo per i tuoi disegni con lo smog?”
Alessandro: “Come dicevo prima, non essendoci inquinamento che si deposita sui monumenti di Firenze, manca la materia prima, manca il colore”. (Sorride)
Aris Baraviera, Milano, 9 maggio 2020.
“L’arte in fondo, come tante fra le cose più belle, vien meglio un po’ di nascosto.” (Emilio Cecchi).
Quando corricchia nel Parco delle Cascine di Firenze, Alessandro ama quasi volteggiare come una piuma sospinta dal vento. Con quel fisico longilineo e quelle gambe così lunghe, si muove agilmente come un atleta keniota, perdendosi completamente nella natura e quasi fondendosi in essa. A volte decide di spingersi fino alle Foreste Cosentinesi, dove cammina instancabilmente, per ore, con lo zainetto sulle spalle, vestito comodamente ma in modo semplice, ben lontano da quello che dovrebbe essere il look e l’equipaggiamento dei moderni runner ed escursionisti dell’Hiking e del Trekking.
Alessandro non sembra curarsi troppo della sua immagine “social”, forse perché non gliene importa nulla di piacere alla gente, o forse per via di quella leggera timidezza che si trascina dietro da quando era ragazzo. Una timidezza che non gli ha impedito di condurre uno stile di vita decisamente anticonformista e un po’ anarchico, caratterizzato da uno spiccato senso critico e da una grande passione per la natura, per l’ecologia e per l’arte declinata nelle più svariate espressioni, come ad esempio la musica e la pittura.
Alessandro Ricci, classe 1968, celibe, laureato in biologia, vegetariano, nato e cresciuto a Firenze, ha vissuto anche due anni a Perugia e uno a Parma. Vive appena fuori dalla città, a Scandicci, e fa l’insegnante precario di scienze naturali nelle scuole superiori. Appassionato di musica, suona in due differenti band: melodia popolare con il violino e barocca con il flauto dolce. Di tanto in tanto dipinge quadri utilizzando lo smog come unico colore, al posto delle varietà cromatiche disponibili in commercio. Questa indubbia originalità e creatività pittorica gli ha dato una certa notorietà, che però lui ha cercato in tutti i modi di rifuggire.
Ogni estate trascorre le vacanze sull’isola di Linosa, in Sicilia, con l’associazione Hydrosphera, dove si occupa della conservazione dell’ambiente marino e in particolare delle tartarughe. Quando è a Firenze, appena può si rifugia nei parchi per camminare, correre, andare in bici o semplicemente per avere un contatto con la natura.
Alessandro soffre più di altri sportivi l’attuale lockdown, non solo per il fatto di non potersi muovere, ma anche per la mancanza di contatto con la natura di cui avverte un bisogno quotidiano. Fin da quando era piccino, aveva imparato ad apprezzarla e ad amarla a Stazzema, nell’Alta Versilia, dove avevano casa i nonni. Lì era solito fare delle lunghissime camminate nel Parco delle Alpi Apuane, e proprio lì aveva capito che il suo amore per la natura sarebbe stato indissolubile. Con il passare degli anni era cresciuta in lui una vera e propria anima prettamente ecologista.
Avremo comunque modo di conoscere meglio Alessandro Ricci nei prossimi articoli, dove proveremo a tracciare un profilo dell’uomo, dell’ecologista e dell’artista. Ci faremo raccontare lo stato dei parchi cittadini di Firenze e spiegare bene come si articolano le sue uscite sportive. Vi daremo conto dei suoi segreti, vizi e virtù e cercheremo di capire come sta trascorrendo questo periodo di forzata clausura, investigando se possibile sulla sua produzione artistica, a dispetto della sua proverbiale riservatezza. Cercheremo di capire anche se la forzata immobilità l’abbia fatto soccombere e sprofondare nella pigrizia, che forse, per certi versi, è il suo tallone di Achille.
Discuteremo con lui delle minacce globali che incombono sul pianeta post Corona Virus, dal riscaldamento globale al crescente pericolo di una guerra nucleare. Cercheremo di capire se, dal suo punto di vista, la crisi in corso rappresenta anche un’occasione per renderci conto dei profondi difetti del mondo, delle profonde e disfunzionali caratteristiche dell’intero sistema socioeconomico, che probabilmente dovrà cambiare se vogliamo sopravvivere nel futuro.
Discuteremo con lui di tutto questo, sapendo che, a causa della sua proverbiale modestia, rimarrà un po’ sorpreso, chiedendosi perché poniamo proprio a lui tali quesiti, ma siamo certi che ci risponderà con la solita naturalezza e semplicità che ben gli si addice e che tanto ama.
“L’artista è l’ultimo a farsi illusioni a proposito della sua influenza sul destino degli uomini. L’arte non è una forza, è soltanto una consolazione”.
(Thomas Mann)
Aris Baraviera, Milano, 4 maggio 2020.
Marta Carradore, di Arzignano (VI), classe 1989, ex campionessa di Sci, laureata a Verona in Scienze Motorie e triatleta dal 2016. E’ istruttrice di Mountain Bike, Atletica leggera, Triathlon, Nuoto e stagionalmente di Sci Alpino. Insegna anche Pesistica e Body Building, Educazione posturale e Nordic Walking. Noi l’abbiamo conosciuta e intervistata lo scorso anno, a maggio e dicembre, nei panni della personal trainer di Carlo di cui abbiamo parlato nella rubrica a lui dedicata(“il mondo di Carlo”). Marta collabora anche con la campionessa Martina Dogana ed è particolarmente preparata sulla tecnica della corsa, con analisi di tipo funzionale sui singoli segmenti corporei e sulla percezione del proprio corpo. E’ Appassionata di Mental Training sportivo e tra i sogni nel cassetto c’è quello di diventare un giorno mental coach.
AB: “Ben ritrovata Marta, della situazione incredibile che stiamo attraversando cosa mi dici in merito alla chiusura delle attività sportive?”
Marta: (Riflette un attimo prima di rispondere) “In accordo con il fisioterapista con cui collaboro, avevamo deciso di fermare tutte le attività prima ancora che arrivasse lo stop ufficiale domenica scorsa dalle istituzioni. La situazione è delicata, e non sappiamo fino a quando si protrarrà. Crediamo sia giusto fermarsi nel rispetto degli atleti in primis e poi anche per noi tecnici. Avremo un mese nero dal punto di vista degli incassi, visto che non lavorando non percepiamo nulla, ma ci daremo da fare comunque e ci riprenderemo appena sarà possibile farlo”.
AB: “Hai preparato dei compiti da fare a casa per i tuoi atleti?”
Marta: “Io ho pensato di creare dei semplici video da pubblicare sui canali social, in modo che tutti possano vederli e di conseguenza praticarli indoor, ciascuno nelle proprie case o se possibile in spazi privati, senza dover utilizzare alcun attrezzo specifico. Sono video amatoriali che spero possano servire da stimolo alla voglia di tenersi in forma e in allenamento. Sto iniziando a metterli anche su Youtube e sarà per me una sfida dal punto di vista tecnologico, perché dovrò acquisire quella necessaria dimestichezza che queste cose richiedono. Inoltre sto cercando di mandare dei video personalizzati a ciascun atleta -- simil tutorial – in modo tale che possano continuare a seguire in qualche modo quello che già stavamo facendo prima, anche se ovviamente non potranno fare le attività che facevano in vasca, in piscina”.
AB: “Come hai vissuto la prima fase dell’emergenza, eri tra gli allarmati della prima ora o trai i negazionisti?”
Marta: “Mah, mi disturbavano molto le notizie contrastanti, l’angoscia dell’incertezza, gli alti e bassi degli opinionisti e più in generale il precario equilibrio nei giudizi”.
AB: “Parliamo adesso della tua salute: ho letto dai social che hai rotto il menisco!?”
Marta: “Sì, no, nì. Ecco diciamo che non si capisce … il quadro non è molto chiaro. Poco più di un mese fa, alzandomi dall’auto, mi è ceduto il ginocchio…Premetto che questa è la solita gamba che risente dei problemi che ho avuto alla schiena. Mi ricordo bene che è successo di martedì, il giorno dopo che avevo realizzato il personale nei 10 mila metri: In un attimo sono passata dalle stelle alle stalle … dallo stare benissimo al bloccarmi completamente!”
AB: “Come stai reagendo all’infortunio?”
Marta: “Ho fatto fisioterapia, in particolare la Tecar che è un trattamento elettromedicale. Il problema principale è che il dolore non è localizzato al ginocchio, mi prende tutta la gamba.
Un paio di settimane fa ho provato a correre per testare il punto preciso che mi duole. Così facendo ho appurato che non ho un punto fisso e preciso. Il dolore varia e sembra quasi spostarsi da una zona all’altra della gamba: a volte il tibiale, a volte il gluteo, altre volte il ginocchio. Dalla risonanza magnetica risulta che ho un problema al menisco e alla cartilagine. Inizialmente ho pensato di poterlo risolvere in fretta, perché l’operazione al menisco in sé comporta tempi di recupero piuttosto brevi. Poi però la doccia fredda è arrivata dall’ortopedico, che mi ha spiegato che la lesione al menisco è vecchia e non c’entra con i problemi che ho adesso. Nemmeno i problemi alla cartilagine giustificano il dolore che sento quando mi muovo. Dolore che non mi impedisce comunque di fare le scale di corsa, di pedalare per due ore, di fare i balzi e di nuotare con il pull buoy. Ora sto facendo un lavoro con il fisioterapista, che è anche osteopata, di cui mi fido al 1000 per mille. E’lo stesso che mi ha risolto il problema alla schiena. Devo far riassorbire l’ematoma vicino alla cartilagine. Nello stesso tempo ho già iniziato a lavorare sulla schiena e sull’appoggio del piede. L’idea è che ci possa essere un “disassesto”, cioè uno scompenso dovuto più che altro dalla schiena. Ci sono dei momenti che non riesco nemmeno a fare un passo, altri in cui penso che potrei correre. E’un dolore che definirei a intensità variabile". (Sorride a denti stretti)
AB: “Quindi avresti preferito che ci fosse stata la classica lesione al menisco?”
Marta: “Sì, speravo fosse quella, in quindici giorni sarei tornata come prima. Invece i tempi si allungano e non so ancora quando riuscirò ad essere a pieno regime”.
AB: “Pensi che dovrai rinunciare a gare che avevi già programmato?”
Marta: “Credo di no, spero che mi sarò rimessa in sesto in tempo, per il primo appuntamento importante che è il 7 giugno (virus permettendo). Poi ne ho uno il 7 settembre e una maratona ad ottobre. Il primo appuntamento è un Triathlon Olimpico, per cui punto ad allenarmi bene perlomeno con la bici”.
AB: “Sappiamo che prima di questo infortunio ti eri rotta sei volte il ginocchio, fatta male ad un piede, fratturata una caviglia e avevi avuto anche problemi alla schiena. Premesso questo, ti chiedo se ti succede mai di avere dei momenti di assoluto sconforto, o rabbia?
Marta: “Se sapessi che servisse a qualcosa, allora mi arrabbierei, (Ride) ma so che è meglio reagire positivamente e quindi cerco di vedere il bicchiere mezzo pieno: 1) non sono completamente ferma; 2) appena riaprono le piscine potrò nuotare con il pull buoy; 3) riesco a pedalare senza particolari problemi; 4) ho la palestra a casa a mia, a mia completa disposizione e la sto usando.
Ecco, in un certo senso anche nella sfortuna mi sento privilegiata. Quindi mi consolo così e so che lavorando bene riuscirò a velocizzare il mio recupero. Proprio ieri ho ripreso a correre …. e spero di continuare a farlo intensificando giorno dopo giorno il carico di lavoro durante questo mese di clausura”.
AB: “Come hanno reagito le persone che ti stanno vicino alla notizia del tuo infortunio? Ti hanno consolata e coccolata?”
Marta: “Mi prendono in giro, altro che coccole! Un infortunio non è la fine del mondo, e se perdi qualche gara ti puoi rifare più avanti. Bisogna reagire … e l’entusiasmo non deve mai mancare!”
AB: “Sei scaramantica?”
Marta: “Beh, io credo che ogni atleta abbia i suoi riti e le sue personali scaramanzie”.
AB: “Qual è la tua scaramanzia pre-gara? Hai una liturgia tutta tua?” E inizia molto prima della gara?”
Marta: “No no, inizia circa cinque minuti prima …Però sono molto concentrata e metodica, guai a chi mi parla il giorno della gara!”
AB: “C’ entra la religione nei tuoi rituali scaramantici? Sei credente e praticante?”
Marta: “Poco, poco. Direi che la mia è una spiritualità molto laica, una semplice ricerca del contatto con me stessa per trovare concentrazione e sconfiggere le paure".
AB: “Quando arriva la tensione prima della gara?”
Marta: “Mah, il giorno che precede la gara lo passo a “smontarmi”, nel senso che emerge in me un’insicurezza che tende a minare tutte le certezze. Poi, per fortuna, supero tutto 5 minuti prima della gara, quando riesco a trasformare l’insicurezza in forza ed energia positiva”.
AB: “Allora raccontaci qualcosa di più su quei cinque minuti che precedono la gara!”
Marta: “Beh qualche cosa vorrei tenerla per me, non posso raccontare tutto!” (Sorride e saluta)
Aris Baraviera, Milano, 13 marzo 2020.
Massimiliano Rovelli (Max) che abbiamo conosciuto nei precedenti articoli, è di aspetto assai giovanile e dal portamento elegante. Milanese di nascita ma residente a Vigevano, si è inserito perfettamente nell’ambiente in cui vive, nonostante sia uno dei pendolari che quotidianamente fanno avanti indietro dal centro di Milano. Alcune volte in treno, altre volte in macchina o in scooter.
Quando lo incontro, in centro a Milano, veste in modo informale, ma con capi che rivelano grande eleganza e ottimo gusto: pantaloni di velluto grigio fumo a righe, e una giacca piuttosto aderente che gli mette in risalto le spalle ampie e squadrate. Sulla camicia chiara spicca una cravatta color lilla. Ci sediamo ai tavolini deserti di un bar, ordiniamo del prosecco e chiacchieriamo, scacciando i pensieri del Coronavirus per almeno mezz’ora.
AB: “Qual è il tuo idolo in ambito sportivo?”
Max: “Mi ispiro a Baldini, maratoneta, mezzofondista e campione olimpico ad Atene nel 2004. E’ biondo con gli occhi azzurri, mi assomiglia. (Ride) Mi piace molto di testa …è un grande! Nel calcio invece ho amato Roberto Baggio, Platini e Del Piero: ho sempre apprezzato la fantasia… l’estro”.
AB: “A parte Baldini, a chi ti senti di somigliare?”
Max: (Ride) “I miei amici mi chiamano il Kevin Costner dei poveri …”
AB: “Anche i tuoi sono nati a Milano?”
Max: “Sì, Milano. Mio padre era un giocatore dell’Inter degli anni Cinquanta. Ha giocato anche al Vigevano, al Soresina e in Calabria. Era una mezzala sinistra forte. Ha giocato anche con Bearzot!” (L’espressione del viso diventa molto fiera)
AB: “Hai iniziato a lavorare presto?”
Max: “Sì, anche se non ricordo precisamente la data. Quando studiavo ed ero poco più che un bambino aiutavo già il fruttivendolo sotto casa mia. Lo facevo perché mi piaceva, non per soldi. Mio padre allora mi dava ben 50.000 lire alla settimana per le mie spesette, ed era una bella cifra! Cmq il lavoro vero è iniziato in un’azienda di galvanica, facevamo lavorazioni sull’alluminio. Io sono perito meccanico. Sognavo di diventare collaudatore, perché la mia passione erano le macchine e i motori. Dopo il militare però sono andato in Rinascente, dove mio padre ricopriva il ruolo di dirigente. Poi, un po’ per caso, sono arrivato dove sono ora, cioè negli uffici di un teatro…”
AB: “Perché non sei riuscito ad intraprendere la strada da collaudatore?”
Max: (Riflette un attimo prima di rispondere) “Mah, sai… i miei genitori mi seguivano abbastanza, per quello che potevano… (adesso sembra perplesso) perché erano già separati. Si sono lasciati nel 1978, quando io avevo solo dieci anni. Ecco, non dico che siano stati i primi a beneficiare del divorzio in Italia …ma nella mia scuola ce n’erano pochissimi che avevano i genitori separati, forse due! Per alcuni anni ho sofferto un po’, perché mi è venuta a mancare la terra sotto i piedi …. e forse sono stato un po’ fragile e poco equilibrato. Non avevo problemi particolari nello studio … non sono mai stato bocciato, né ho mai avuto esami di riparazione, ma per fare il collaudatore sarebbe servita più stabilità, più impegno nello studio e due genitori più liberi mentalmente di seguirmi e sostenermi”.
AB: “Come sei cambiato rispetto alla persona che eri una volta?”
Max: “Prima ero più pignolo e rigido. Da un po’ di anni lo sono meno, mi sono ammorbidito. Sono sempre stato curioso, ma ora lo sono ancora di più. La mia forza è che ascolto, ascolto tanto e osservo per carpire tutte le informazioni possibili, poi ‘rubo il lavoro’ e miglioro”.
AB: “Che sensazione susciti alle persone che incontri?”
Max: “Invidia, ad esempio il mio amico Alberto è invidioso delle mie prestazioni nelle gare podistiche. In allenamento risponde colpo su colpo, ma in gara non riesce a esprimere tutto il suo potenziale e quindi si attapira ...” (Ride di gusto)
AB: “A parte gli scherzi, davvero sei oggetto di invidia?
Max: “C’è tanta invidia nella società, la sento sulla pelle, nelle piccole cose come nelle grandi. A volte sembra quasi il motore che fa girare tutto…” (Il tono della voce è diventato molto serio)
AB: “Hai qualche rimpianto in ambito sportivo?”
Max: “Beh, se fossi stato seguito un po’ di più da bambino e da ragazzo, forse avrei potuto giocarmi le mie carte nel mondo del calcio. O almeno credo. Dico calcio perché negli anni Ottanta non era ancora di moda il running, c’era l’atletica … ma io non la praticavo. Comunque va bene così, la vita è bella lo stesso”. (Sorride e sembra felice o perlomeno sereno)
AB: “Come ti ha cambiato il running?”
Max: “Mah, non saprei. Forse sono diventato solo più salutista. In ogni caso il running richiede fatica, costanza e altruismo, ed è per questo che magari ti migliora un po’. Devi sempre dare senza se e senza ma”.
AB: “Il running è una filosofia di vita? Solo se impariamo ad accettare e sopportare il dolore attraverso la resilienza possiamo raggiungere i nostri obiettivi?”
Max: “Sono un tipo pratico, e queste cose per me lasciano un po’ il tempo che trovano. Non mi piacciono i voli pindarici. Credo che sia giusto sognare, ma lo è ancora di più avere i piedi ben piantati per terra. Nella vita tutti vorrebbero essere bravi come Ronaldo, ma di Cristiano Ronaldo ce n’è uno solo, gli altri devono volare basso …”
AB: “Sei credente?”
Max: “Sono cattolico anche se vado raramente in chiesa. Credo molto negli angeli protettori, ognuno di noi ne ha uno”.
AB: “E ti proteggono durante le gare?”
Max: (Sorride) “No dai, non confondiamo il sacro con il profano …”
AB: “Le gare più belle o quelle a cui sei più affezionato?”
Max: (Ci pensa un attimo) “La Maratona di Nizza e la Scarpa d’Oro di Vigevano. Ma ce ne sono tante di gare belle davvero!”
AB: “Ma che fine hanno fatto le ragazze che correvano con voi qualche anno fa?”
Max: “Ci hanno schiodato, siamo rimasti solo noi maschietti: io, Francesco, Andrea e Alberto. Che amarezza!” (Sorride)
Aris Baraviera, Milano, 1marzo 2020.
Alle 7.45 di sabato 15 febbraio, Massimiliano Rovelli è in Piazza Ducale a Vigevano, dove un tempo c’era la parte posteriore della Chiesa Cattedrale e dove ora sorge la facciata barocca del Duomo. E’ lì davanti. Da qualche minuto sta aspettando l’arrivo di Andrea e Francesco per la seduta odierna di allenamento che li vedrà impegnati insieme in un percorso lungo circa 24 km.
Max oggi sente i piedi pesanti e ha come l’impressione che non riuscirà a correre, che le gambe non si muoveranno come dovrebbero. E’ convinto che non riuscirà a tenere il passo neppure con le signore del vicinato che stanno facendo la loro passeggiata ad andatura sostenuta. E’ reduce da un trittico di gare che l’ha un po’ sfiancato: Il 19 gennaio era a Novara per la Mezza Maratona di San Gaudenzio, il 2 febbraio alla Mezza Maratona di Bergamo e il 9 febbraio alla Mezza del Castello di Vittuone. Spesso rigidità muscolare, accumulo di acido lattico e dolori ai legamenti durano giorni e giorni, e raccontano di battaglie combattute aspramente. E mentre sta pensando all’acido lattico, ecco arrivare i due amici che stava aspettando. Si salutano goliardicamente, poi iniziano a sfottersi subito, quasi a voler esorcizzare la fatica che oggi li attende.
A Vigevano la piazza la chiamano “il salotto” perché d’estate ci si può sedere ai tavolini ad ammirare gli affreschi e a percepire l’armonia di una regale anticamera d’ingresso all’imponente Castello visconteo-sforzesco. Sotto i portici le botteghe, un tempo occupate dai commercianti di lana e seta, oggi offrono shopping di qualità o hanno lasciato spazio ai bar, alle gelaterie e alle pasticcerie. I tre runner sembrano attratti da una vetrina piena zeppa di cioccolatini, ma poi decidono come al solito di recarsi al bar dagli amici Maurizio e Cristina, che dista pochi passi dalla piazza.
Appena usciti dal bar, Max, Andrea e Francesco iniziano a lentamente a correre, con l’obiettivo di arrivare ai laghi di Santa Marta che distano poco più di 10 km dal centro di Vigevano. L’allenamento inizia precisamente alle 8,00, il suono delle campane accompagna i loro passi che si dirigono verso il Ticino e verso la nebbia della campagna vigevanese.
Max oggi fa fatica a stare al passo con gli altri due. Ha le gambe indurite e non respira correttamente, anche perché continua a chiacchierare trattenendosi a stento dal ridere. Francesco è solo apparentemente più serio. L’apparenza svanisce quando racconta ad Andrea di aver appena regalato a Max la rivista “Motociclismo”, contrariamente a quanto aveva fatto lo scorso anno, quando aveva scelto di donargli l’abbonamento alla rivista “Correre”. Francesco prende in giro Max. Ride e scommette con Andrea che nei prossimi mesi l’amico trascurerà la corsa a beneficio della nuova super moto enduro che ha appena comperato. Ripete il concetto più volte prima di aumentare il passo, distanziando gli altri due e incurvandosi come a voler essere aerodinamico. Max reagisce insultando Francesco e chiamandolo “Nano maledetto” come a voler sottolineare la buffa postura. La prima parte dell’allenamento è così, decisamente frivola e scanzonata come spesso accade ai tre, che adesso continuano ad insultarsi.
Passa qualche minuto e il silenzio finalmente prende il sopravvento. I runner hanno appena ingranato la marcia e l’allenamento sembra farsi serio. Ora l’aria entra dolcemente nel loro petto e poi esce. I cuori si espandono e si contraggono silenziosamente a velocità regolare. I polmoni come mantici instancabili, portano ossigeno ai loro corpi. Sembra quasi di sentirne distintamente il fruscìo.
Prima di arrivare ai Laghi di Santa Marta, i ragazzi passano vicino al campo da golf Selva Alta Sporting Club dove incrociano i golfisti con i loro carrellini. Quando arrivano alla meta sono praticamente al giro di boa. Ora Max si sente rigenerato, le gambe finalmente girano bene, il dolore è passato.
I Laghi di Santa Marta sono due bacini dalla circonferenza di circa 1 chilometro ciascuno. La profondità massima è di 23 metri. In prossimità dei laghetti scorre un gradevole ruscello che per un po’ affianca i runner e c’è una fontanella dove i tre hanno appena bevuto.
Lasciando i laghi, Max e compagni si avviano poi verso una salita in cima alla quale tempo fa avevano incontrato una volpe bellissima e spaventata. Dopo la salita arrivano alla frazione della Sforzesca dove c’è un piccolo cimitero. Passato quello, si sentono in dirittura di arrivo, e ora procedono decisi e sereni. Quando corrono, e smettono di chiacchierare, semplicemente corrono, nel vuoto. In quella sospensione spazio-temporale, pensieri ogni volta diversi si insinuano nelle loro menti. Si formano e ruotano attorno al nulla. Sono pensieri leggeri come nuvole che vagano nel cielo.
Mentre rientrano verso il centro di Vigevano, i tre riprendono a chiacchierare e a punzecchiarsi come se non ci fosse un domani, pur essendo ormai in debito di ossigeno. Max avverte distintamente anche una certa secchezza delle fauci e ricorda con nostalgia l’allenamento in cui si era fatto scortare dalla compagna Simona, che lo seguiva in bici e amorevolmente gli passava la borraccia ogni 5 chilometri.
Ora Max sente molto la fatica e avverte distintamente un dolore. Il dolore del corridore non solo è un dato ineluttabile ma diviene quasi un segno di appartenenza, un vessillo, è il dolore che scaturisce dalle “ferite”. Ferite di una guerra che nessuno gli ha chiesto di combattere, ma che non per questo è meno vera e non per questo fa meno male.
L’allenamento finisce in piazza Ducale, praticamente lì dove era iniziato, verso le 9.45. Dopo essersi affondati le ultime stoccate, i tre si abbracciano calorosamente come a voler sancire una sorta di pace, o perlomeno una legittima tregua. In ogni caso ora si sentono in pace con loro stessi. E questo dopo un allenamento è l’unica cosa che davvero conta.
Aris Baraviera, Milano, 16 febbraio 2020.
AB: “Massimiliano, è così importante per te il running?”
Max: “Il running mi aiuta tanto. (Sospira) Mi aiuta perché scarico lo stress. La regola è che non devi pensare a nulla mentre corri. Se hai un problema non te lo devi portare dietro, perché altrimenti ti blocca. Devi correre lasciando scorrere tutto. Ecco, non devi pensare proprio a nulla. La corsa deve essere un momento tuo, di libertà e di godimento, solo così resetti veramente tutto. Appena ti viene in mente qualcosa di strano, il fiato ne risente sùbito e sei spacciato! Dopo la corsa invece, se ti sei allenato bene ovviamente, puoi affrontare tutto con uno spirito nuovo. E puoi dare alle cose e ai problemi la giusta importanza che hanno, senza esagerazioni".
AB: “Ti alleni da solo o preferisci la compagnia?”
Max: “Mi alleno quasi sempre in compagnia. Amo il gruppo e cerco di condividere con gli altri le tabelle di allenamento, le gare e più in generale tutti gli obiettivi sportivi e ricreativi”.
AB: “In base a quali caratteristiche scegli il parco dove allenarti?”
Max: “La prima cosa che guardo è se c’è o meno una fontanella, specialmente se devo fare un percorso lungo. Poi credo sia importante avere una salita o perlomeno un ponticello, se ti devi allenare a fare delle ripetute o se hai una tabella di allenamento variabile. Poi ancora è importante essere lontano dallo smog, quindi meglio un parco molto verde e meglio ancora se è lontano dalle tangenziali o dalle strade trafficate. Come ultima cosa, mi viene in mente che sarebbe utile disporre di una certa variabilità di percorsi, dove puoi scegliere quello che ti serve in un dato momento: asfalto, erba o sterrato”.
AB: “In quali parchi ti alleni solitamente?”
Max: “Quando corro con i miei amici di Settimo Milanese andiamo al Boscoincittà, al Parco di Trenno e al Parco delle Cave. Se corro invece dalle mie parti, e intendo vicino a Vigevano, allora andiamo sulle sponde del Ticino. Qui non c’è un vero e proprio parco, ma è più un percorso per runner e ciclisti”.
AB: “Quando sei costretto a stare fermo, quanto ti manca la corsa?”
Max: “La chimica del running è incredibile … le endorfine sono come una droga! Quando non riesco a correre, perché sono impegnato o perché ho un problema fisico, mi sento un animale in gabbia … e non vedo l’ora di uscire! Io in genere esco con la nebbia, con la pioggia e con la grandine ….se voglio uscire esco!” (Sembra carico come una molla)
AB: “Durante la corsa quale dei cinque sensi ritieni sia più utile? Quale usi di più?”
Max: “La vista, sicuramente. Durante la gare, fissare le gambe della famosa ‘lepre’ è sempre utile e non è un caso che Eliud Kipchoge a Vienna, per scendere sotto le 2 ore, si sia avvalso del loro aiuto…
Poi possiamo distinguere due scuole di pensiero: quelli che si mettono in scia dei runner veloci facendosi appunto trascinare, e quelli che si incollano dietro alle belle ragazze e ... osservano i loro glutei per distrarsi dalle fatiche della corsa …”
AB: “E tu che tipo di ‘lepre’ segui?”
Max: ”Il runner veloce. Ti confesso che mi è capitato di seguire anche la bella donna …”
(Ride)
AB: “Come è cambiata la tua dieta da quando corri?”
Max: “Beh, innanzitutto la corsa ti permette di mangiare un po’ di più visto che bruci tante calorie. Io sono un mangione e grazie alla corsa mi posso permettere qualche piatto in più ... Quando sei sotto gara però devi seguire un’alimentazione bilanciata e soprattutto non puoi permetterti di mangiare come se non ci fosse un domani…”
AB: “Nella rubrica Il mondo di Carlo abbiamo trattato temi ambientalisti. Volevo chiederti quanto tu ti senta ambientalista e cosa ne pensi della battaglia che sta facendo Greta Thunberg?”
Max: “Penso che ci volesse proprio una Greta per sensibilizzare i popoli e per dare una scossa. Ormai credo che non ci sia troppo tempo da perdere, perché quello che sta accadendo è sotto gli occhi di tutti. In Australia sono morti tantissimi animali ed è stata una cosa tristissima … io penso che l’uomo debba imparare dagli animali il rispetto della natura. Perché da quello che sta succedendo è troppo chiaro che i veri ‘animali’ siamo noi! Io auspico che possano nascere tante Greta perché la battaglia è urgente e impegnativa. In Italia mi è piaciuto molto quello che ha fatto Michela Brambilla, cioè ammiro la sua battaglia di sensibilizzazione e di rispetto per gli animali”. (Emotivamente sembra molto coinvolto)
AB: “Qual è il tuo libro preferito? Romanzo o libro sulla corsa?"
Max: “Uno dei libri che mi è piaciuto di più in assoluto è ‘Open’ del tennista Andre Agassi. Lo consiglio veramente a tutti. Sulla corsa ho trovato interessante ‘Correre è una Rivoluzione’ di Vijay Vad. Ora vorrei leggere ‘Mi chiamavano professor fatica’ di Luciano Gigliotti e Claudio Rinaldi”.
AB: “Come è cambiato il rapporto con la tua compagna Simona da quando fai running? ”
Max: (Sorride) ”I primi anni Simona era un po’ rigida e mi faceva pesare le uscite di allenamento. Poi ha capito che il running mi fa stare bene ed è diventata più permissiva. Sto cercando di portarla nel favoloso mondo del running, ma per il momento lei resiste con la sua palestra…”
Aris Baraviera, Milano, 01 febbraio 2020.
AB: “Massimiliano, nel primo articolo abbiamo raccontato la tua metamorfosi da calciatore a runner, ti chiedo se possiamo definirti uno specialista della mezza maratona”.
Max: (Sorride)“Direi di sì, dopo sette anni di attività posso dire che è sulla mezza maratona che riesco a performare meglio ...”
AB: “Sappiamo che corri i 5km in 22’, i 10km in 45’, la mezza maratona in 1 h e 38’ e la maratona in 3 h e 50’ . Sbaglio o la distanza più lunga ti taglia un po’ le gambe?”
Max: “Beh sì, non solo a me direi … In effetti è vero e vorrei migliorare il mio personale proprio sulla maratona. Mi piacerebbe scendere a 3 h 40’. Tieni presente che scendere di 10 minuti è già tanta roba … Vediamo se avrò la costanza di allenarmi per arrivare a questo traguardo. Oggi mi alleno tre volte alla settimana, quattro in prossimità delle gare, dato che ho scelto una tabella di allenamento con carichi di lavoro di media intensità, comunque non massacranti”.
AB: “Hai fatto poche maratone, vero?”
Max: “Il mio approccio alla maratona è stato un po’ sfortunato, perché quando ho iniziato ad allenarmi per questa distanza ho subìto una serie di problemi alla bandeletta ileotibiale che mi hanno penalizzato molto. Vero comunque, ne ho corse poche”.
AB: “Quindi hai avuto molti infortuni?”
Max: “No, direi di no, perché oltre alla bandelletta ho subito pochi acciacchi e nulla di particolarmente grave e duraturo. E’ che con la bandeletta ci ho messo un po’ di tempo a convincermi che ero guarito davvero. Mi sono trascinato un po’ una certa sensazione psicologica di vulnerabilità ...”
AB: “Nell’articolo della settimana scorsa abbiamo raccontato che usavi l’applicazione Runtustic a San Remo. Che importanza hanno avuto per te i supporti di allenamento come il GPS?”
Max: “Le prime uscite da runner le ho fatte con il telefono legato al braccio, utilizzando l’applicazione Runtustic. Mi sono evoluto però, ora uso un orologio con funzione GPS, anche perché quando percorri lunghe distanze ti pesa il braccio, ti dà proprio fastidio”.
AB: “Per quanto riguarda l’abbigliamento, qual è l’accessorio che secondo te è più importante?”
Max: (Riflette un attimo prima di rispondere) “D’inverno curo molto l’abbigliamento tecnico, soprattutto se fa molto freddo. Uso delle magliette termiche, in primis quella chiamata ‘primo strato’. In pratica sotto la maglietta a maniche corte io ne indosso una a maniche lunghe. Comunque, per rispondere alla tua domanda, credo siano le scarpe l’accessorio più importante. Penso che andrebbero cambiate ogni 500/600 km percorsi per preservarsi da infortuni e da risentimenti alla schiena”.
AB: “Sei iscritto a qualche società sportiva? Per chi gareggi?”
Max: “No, io non sono iscritto a società sportive, ho una tessera che si chiama Runcard che mi consente di partecipare alle attività agonistiche che mi scelgo di volta in volta. Appartenere ad una società sarebbe molto impegnativo a mio parere e preferisco gestirmi così. Tre degli amici che corrono con me hanno la Runcard; il quarto, Francesco, è iscritto invece ad una società sportiva di Reggio Calabria".
AB: “Francesco è forse l’amico che ti ha dato preziosi consigli sul mondo del running, giusto?”
Max: “Francesco Greco mi ha fatto innamorare del running. A lui sono grato prevalentemente per questo. Mi ha trasmesso la passione prima ancora di darmi ottimi consigli. L’ho conosciuto credo nel 2012 e grazie a lui sono cresciuto tantissimo come conoscenza di questo entusiasmante mondo. Lui sia allena come me tre volte alla settimana, però è più maratoneta di me, nel senso che lui lavora sulle distanze più lunghe rispetto alle mie”.
AB: “Che valori ci sono nel mondo del running? Qual è il tuo senso di appartenenza?”
Max: (Assume un’espressione molto seria) “Beh, credo che nel running ci siano valori importanti come il rispetto, il senso di aggregazione e la puntualità. Io li chiamo valori ma li puoi considerare semplicemente come doveri dello stare assieme, del condividere qualcosa con gli altri… Io non amo allenarmi da solo, mi piace correre in gruppo e per questo, a maggior ragione, tali regole diventano importanti per andare d’accordo e condividere un ideale comune”.
AB: “Alcuni amici ti descrivono come una persona intelligente, brillante, leale, altruista e coraggiosa. Cosa mi dici in proposito?”
Max: (Ride arrossendo un po’) “Sono troppo amici … e non mi sembrano particolarmente lucidi nel giudicarmi. Sono tropo buoni …perché io sono pieno di difetti!”
AB: “Qualcuno però sostiene che sei pignolo, igienista e fissato con le pulizie: è davvero così?”
Max: “Sì sicuramente sono pignolo … Però con le pulizie adesso sono un po’ meno fissato di prima … Comunque sono molto ordinato, e la mia compagna non è da meno … ci siamo trovati. Nei miei cassetti tutto deve essere sempre al suo posto … l’ordine mi rilassa parecchio”. (Ride di gusto)
AB: “Il soprannome Trivella te lo sei guadagnato perché lavoravi sulle piattaforme …? Oppure perché ti prendevi cura di un’altra tipologia di “forme”, ovvero quelle più “curve”?
Max: ”Vedi, io ho passato anni d’oro da single … Mi sono separato nel 2004 e per alcuni anni mi sono dato da fare … da qui il nome Trivella!“ (Ride con evidente soddisfazione)
Aris Baraviera, Milano, 26 gennaio 2020.
Sole sul tetto dei palazzi in costruzione
Sole che batte sul campo di pallone
E terra e polvere che tira vento
E poi magari piove …
Massimiliano Rovelli, per gli amici Max, prima di diventare un runner aveva quasi sempre solo giocato a calcio, vantando l’appartenenza alla leva calcistica della classe 68 resa gloriosa dalla canzone di De Gregori. Aveva iniziato da bambino nei pulcini dell’Aics Olmi, che era la squadra dell’omonimo quartiere nei pressi di Baggio, a Milano. Da piccolo lui era una scheggia e puntava tutto sulla velocità. Faceva la punta, e i difensori avversari non lo prendevano mai. Imparare l’arte di sfuggire alle “ciabattate” della madre lo aveva trasformato nel giocatore più veloce della sua squadra.
In età adulta, cioè negli anni Novanta, Max come molti suoi coetanei era approdato al calcio a 5 nei campetti milanesi fatti di erba sintetica. Max non amava solo praticare lo sport, amava soprattutto la compagnia e quelle interminabili serate, dove oltre al calcio giocato c’era poi, a seguire, quello commentato al bar o in pizzeria. Si iniziava sempre con l’argomento Juve, per poi passare al Milan o all’Inter, e si finiva inevitabilmente --non si sa come-- a parlare di donne: della Schiffer, di Naomi Campbell, della Ferilli o della Cucinotta. Erano serate spensierate vissute intensamente nella Milano dei sindaci Pillitteri, Formentini e Albertini, una città profondamente diversa da quella attuale.
Nonostante le sue brevi infatuazioni per il tennis, per la mountain bike e per lo sci alpino, gli anni del calcetto per Max sembravano destinati a durare per sempre. E così probabilmente sarebbe andata se non fosse stato per una specie di sfida a cui si era prestato all’inizio dell’anno 2013. Un collega, con cui lui era solito praticare jogging al Parco di Trenno, gli aveva proposto di allungare un po’ il giro che abitualmente percorrevano e di provare a coprire un tragitto nuovo di 12 km. Quella insolita sfida lo aveva stuzzicato, e così nel giro di qualche tempo il traguardo era stato raggiunto e la sfida vinta da entrambi, con enorme fatica, ma anche tanta inattesa e stupefacente soddisfazione. Nel mese seguente Max aveva iniziato ad allenarsi al Parco del Ticino con le scarpe da running comprate da Decathlon, a 20 euro. La preparazione era finalizzata alla 10 km della Stramilano del marzo 2013, che poi corse in un tempo che lui definisce “accettabile” e durante la quale venne letteralmente stregato e rapito dall’atmosfera e dall’entusiasmo di quella manifestazione.
Il vero salto di qualità l’aveva fatto l’estate dello stesso anno, a Sanremo, dove la sua famiglia d’origine possedeva una casa di villeggiatura. Lì si era allenato sul lungomare con l’ausilio dell’applicazione Runtastic e aveva imparato ad apprezzare la corsa favorito dai bellissimi panorami e dalla brezza marina. Max amava particolarmente sentirsi la salsedine sulla pelle. Complice un clima ideale , lì per la prima volta aveva anche percepito distintamente l’effetto inebriante delle endorfine prodotte dall’intenso allenamento ed era riuscito a percorrere 21 km in poco più di 2 ore. Abbronzato dal sole agostano e tirato a lucido dalla nuova tabella di allenamento, Max si pavoneggiava mostrando con orgoglio l’abbigliamento da professionista, il suo primo equipaggiamento da runner duro e puro.
Da quell’estate in poi era diventato un runner da mezza maratona, anche se non disdegnava le cosiddette tapasciate, le campestri alle quali partecipava nei weekend con amici e amiche con i quali aveva costituito un gruppo molto affiatato.
Qualche anno dopo, quando i 21 km sembravano calzargli a pennello, si era messo in testa di correre una maratona vera e propria, da 42,195 km. Così, grazie ai preziosi consigli dell’amico Francesco, aveva deciso di prepararsi per la Maratona di Roma, in programma il 2 aprile del 2017. Max ricorda ancora distintamente i giorni della preparazione di quella gara, che lui ingenuamente pensava di poter correre subito in meno di 4 ore. Ricorda bene il mese di potenziamento, quello dedicato alla resistenza e il terzo in cui aveva forzato un po’ sulla velocità. Ricorda bene anche il viaggio con gli amici nel Freccia Rossa di quella mattina del primo aprile 2017 in direzione della Capitale. Purtroppo ricorda anche la febbre da stress che lo aveva colpito in hotel la notte prima della maratona e l’ansia da prestazione che gli attanagliava la gola. Le notti dei maratoneti sono infatti spesso popolate di incubi. Lo stress fisico della preparazione ha forti ripercussioni anche a livello psicologico , e le sue sembianze sono quelle di fantasmi che ciascuno si porta dentro. Sono lì quegli spettri. Accompagnano il runner metro dopo metro, e sono le ingiustizie subite, i fallimenti, i lutti e le sconfitte , le occasioni perse e quelle che non si sono mai presentate. Ogni corsa è anche un’arma per far fronte a questi fantasmi.
Max era partito fortissimo alla sua prima maratona e aveva seminato i compagni di avventura. Racconta però che al trentesimo chilometro aveva incontrato e conosciuto il famoso “muro” . Racconta che i muscoli delle gambe si erano bloccati, induriti come una vecchia gomma da masticare. Capacità di resistenza ne aveva ancora e anche la respirazione era regolare. Semplicemente le gambe non gli ubbidivano più. Lui voleva ancora correre, loro no. Si era dovuto fermare e aveva finito la corsa camminando. Aveva commesso insomma tutti gli errori tipici dell’amatore che, in quanto innamorato ma un po’ sprovveduto, tende sempre a sbagliare per eccesso di generosità. Nonostante questo, oggi Max ricorda la felicità dopo quella prima maratona e la soddisfazione di aver potuto comunque vedere di persona cosa c’è dietro al famoso “muro” dei maratoneti, anche se in realtà in quell’occasione ci era andato a sbattere contro.
Dopo anni di gavetta, oggi Massimiliano è un runner fatto e finito. L’occupazione non gli lascia molto tempo libero, ma riesce comunque ad allenarsi almeno tre volte alla settimana. Lavora in un ufficio che supporta la produzione artistica in un teatro di Milano. Vive a Vigevano con la compagna Simona. Avremo comunque modo di conoscerlo meglio nei prossimi articoli dove cercheremo di tracciare un profilo sia del runner che dell’uomo, dei suoi segreti, vizi e virtù. Per ora possiamo anticiparvi che di lui si parla un gran bene e non solo nel mondo del running, ma diciamo in generale, come persona a tutto tondo. Dicono di lui che sia intelligente, brillante, leale, altruista e coraggioso. Qualcuno sostiene addirittura che non abbia difetti. Le fonti che ci dicono questo però sono in “conflitto di amicizia”, per cui vanno prese un po’ con le pinze. Alcune malelingue sostengono che sia un tipo pignolo e igienista, assolutamente fissato con le pulizie e con l’ordine della casa. Noi non sappiamo come stiano effettivamente le cose e per questo motivo cercheremo di investigare a fondo per scoprire la verità.
Un’altra anticipazione che possiamo darvi è che nel corso delle festività natalizie pare abbia sforato un po’ con la dieta. Si teme infatti che alla prossima maratona possa non farcela a stare sotto il tempo delle 4 ore.
… Max non avere paura di non scendere sotto le 4 ore
Non è mica da questi particolari
Che si giudica un corridore
Un corridore lo vedi dal coraggio
Dall’altruismo e dalla fantasia …
Aris Baraviera, Milano, 18 gennaio 2020.